Il nichilismo del nostro tempo: intervista a Costantino Esposito

Il nichilismo del nostro tempo: intervista a Costantino Esposito

Il nichilismo del nostro tempo: intervista a Costantino Esposito 1024 489 Massimo Trocchi

Marty: Una volta a cena, se non sbaglio, mi avevi raccontato qualcosa

riguardo al fatto che inventavi storie guardando le stelle…

Rust: Sai, Marty, sono stato sveglio a guardare fuori da quella finestra ogni notte e alla fine…

c’è solo una storia, la più antica

M: Quale?

R: La Luce contro l’oscurità…

Marty e Rust sono i protagonisti di True Detective, serie televisiva americana di grande successo prodotta e lanciata da HBO nel 2014.

Marty e Rust sono anche due tra i numerosi compagni e interlocutori che troveremo nel nuovo saggio di Costantino Esposito*: Il nichilismo del nostro tempo, in uscita tra pochi giorni per le edizioni Carocci. Il nostro Autore fin dalle prime pagine, nel raccontarci la genesi di questo volume, non si nasconde. Uno dei suoi principali interessi, nel rigoroso utilizzo degli strumenti e delle categorie proprie delle discipline filosofiche, è quello di cercare di capire, mostrare e interloquire con i differenti modi di “essere al mondo” delle persone.

Di ciascuno di noi: come viviamo, come percepiamo noi stessi, la nostra intelligenza, libertà, affezione. Gli altri, anzi, il nostro rapporto con l’alterità.

Ecco dunque comparire personaggi provenienti da serie televisive, stralci di dialoghi con i propri studenti universitari, continui riferimenti ai linguaggi, alle finzioni e ai poteri dei nuovi media. E la poesia, la letteratura di ieri e di oggi, da Corman McCarthy a Philip Roth, per la gioia del mio collega e autore di questo blog Angelo Chiani.

Tutto serve e da tutto e da tutti possiamo imparare, perché la posta in gioco è alta: l’uomo e la sua concezione come “luogotenente del nulla” e al contempo “pastore dell’essere” per utilizzare due celebri espressioni – citate nel testo – di Martin Heidegger, pensatore caro e a lungo indagato dal nostro Autore.

Ben ritrovato, Professore, grazie per aver accettato questo nostro dialogo.

TROCCHI: “Il nichilismo è tornato a essere un problema, nella vita delle persone e nelle vicende del mondo (…)”. E’ l’incipit di uno dei primi capitoli del Suo testo.

Mi permetta di chiederle di entrare nel merito di questa affermazione così perentoria con un gioco di finzione alquanto bislacco. Se io domani mi appostassi con un tavolino all’ingresso del bar dove ogni mattina vado a prendere il caffè e rivolgessi a bruciapelo ad ogni avventore la domanda “mi scusi…ma Lei si definirebbe nichilista?”… ammesso e non concesso di ottenere qualche risposta… credo che ne riceverei ben poche di carattere affermativo.

Eppure, prosegue il Suo capitolo, stiamo parlando “(…) di una concezione pervasiva che segna le più diverse visioni del mondo, accomunate da un tacito riconoscimento: che non esiste più un significato del reale, un senso ultimo di sé e delle cose (…)”.

Proviamo a mettere a fuoco la questione, Professore?

ESPOSITO: Quello che nel mio libro intendo con il termine nichilismo non è innanzitutto una dottrina filosofica o un programma di comportamento, ma un fenomeno che ci appartiene come l’aria che respiriamo, a cui magari non pensiamo in maniera esplicita, ma in cui siamo totalmente immersi.

L’aria del nostro tempo è, appunto, un’aria ormai impregnata di nichilismo, e il segno più eloquente e paradossale di questa diffusione pervasiva è che non ce ne accorgiamo più.

Non mancano ancora gli approcci che, rispetto al nichilismo, dominavano nel Novecento – che è poi un tempo così vicino a noi, oggi, ma insieme anche culturalmente così lontano e quasi estraneo –, come i due opposti atteggiamenti che vedevano in questo fenomeno l’emancipazione di una soggettività finalmente libera, affrancata dai dogmi dell’ordine morale, sessuale e politico, oppure vedevano in esso la minaccia di una sovversione cui bisogna resistere, si deve reagire per non far crollare, assieme ai valori della morale naturale e della tradizione cristiana e borghese, tutto l’assetto della società.

Certo, vi sono ancora sprazzi o residui di questi atteggiamenti, in fin dei conti del tutto complementari: ma il fuoco del problema è cambiato, è un altro – almeno così mi sembra.

Perché il nichilismo ha vinto, di fatto, anche nei suoi avversari, costringendoli a difendersi a livello di un’etica dei valori e delle procedure, ma avendo già rubato loro il bene più prezioso, cioè l’esperienza di un “io” irriducibile rispetto a tutti i tentativi di risolverlo in natura (istinto) o in cultura (le costruzioni sociali).

Il fatto che le persone non avvertano più l’erosione del loro io come apertura all’infinito, la riduzione del loro desiderio alla mera riuscita o ad una sempre più infernale caccia alla performance migliore; la negazione sottile ma implacabile di un senso ultimo per cui ciascuno di noi è al mondo; l’avvertita impossibilità di essere voluti e amati per quello che si è, e per il fatto stesso che si è, e di essere riconosciuti solo per quello che si deve o si riesce essere – tutto questo è il precipitato del nichilismo nelle nostre coscienze.

Noi, nichilisti...
anche l’avventore
che incontra nel Suo bar preferito.

Solo che questo – ecco la sorpresa che ho avuto scrivendo questo libro – lungi dall’essere una perdita irreversibile (e amen!), è una possibilità nuova di rendersi conto di ciò che è in gioco nella vita nostra e nel mondo. Di rendersi conto della portata, alla lettera irriducibile, del nostro desiderio di “essere” ­– non di essere di volta in volta un qualcosa o un qualcuno che risponda a degli standard prefissati dalla società o dai nostri pensieri astratti, ma di essere in quanto chiamati a noi stessi.

Ecco, il nichilismo del nostro tempo sta facendo riaffiorare il bisogno, per nulla edificante o sentimentale, ma ruvido, spiazzante, a volte urticante, di riconoscere di essere chiamati ad essere. Senza questo, prima o poi – ma poi, sempre – vince il nulla.

E si badi che questa capacità di ri-accadere a noi stessi non è affatto riducibile ad una sfera intima o psicologica, ma è qualcosa di ‘ontologico’: noi non siamo dati una volta per tutte, ma siamo al mondo per accadere sempre di nuovo, nel tempo e nella storia.

Rendersene conto è il gesto più concreto, più sociale, più ‘politico’ che ci possa essere, perché si possono costruire rapporti viventi con gli altri e con il mondo solo se si ha una speranza che possa sfidare la morte – quella biologica ma ancor più quella mentale e affettiva –; e la speranza può nascere solo dalla gratitudine per il fatto di esserci, di esserci ancora: come la commozione per l’aurora, di prima mattina, quando apriamo la finestra.

TROCCHI: Vorrei che si soffermasse ora sulla specifica temporale inserita nel titolo.

Esistono, e se si quali, delle specifiche caratteristiche della cultura nichilista tipiche “del nostro tempo”, che si discostano o sono mutate rispetto ai tratti originari del nichilismo di fine ‘800 e dei suoi sviluppi nel secolo successivo?

ESPOSITO: Il nichilismo classico è esploso nella cultura della décadence europea di fine secolo XIX come un’eruzione titanica, prometeica. Pensiamo all’Ivan Karamazov di Dostoevskij o all’uomo folle di cui parla Nietzsche nella “Gaia scienza”, che va in giro a mezzogiorno con una lanterna accesa, e irrompe nella piazza del mercato cercando a gran voce Dio, per poi proclamare che Dio è morto e che “noi l’abbiamo ucciso”.

Gli uomini indaffarati e dimentichi che si affaccendano nella piazza lo deridono perché sono loro i veri nichilisti – di un nichilismo “passivo” lo chiama Nietzsche, cioè del tutto acquiescente al fatto che non c’è più un perché, un senso ultimo per cui vivere –, e tutti occupati a riempire (illusoriamente) la voragine della mancanza del significato di sé e del mondo.

Ma l’uomo folle – secondo la profezia nietzschiana – trasformerà la sua follia in nuova saggezza, il nichilismo passivo si trasformerà in nichilismo attivo, quello che demolisce gli idoli e sovverte tutti i valori di un finto “al di là” spirituale: esso ritorna alla terra, alla pura natura senza senso; trasforma l’uomo in super-uomo, il dato in volontà di potenza, la libertà in eterno ritorno del necessario.

Ma ecco il contraccolpo: per ironia della sorte, le vicende del nichilismo storico si sono svolte esattamente al contrario della profezia di Nietzsche: l’inizio “attivo”, furioso della decostruzione, dell’assalto al “cielo”, si è poi regolarizzato nel nichilismo passivo che tutti noi volenti o nolenti sperimentiamo, senza mai neanche nominarlo.

 

E così, soprattutto nelle vicende della seconda metà del XX secolo, quella che sembrava una promessa di liberazione dell’io dai pesi e dalle strettoie di una morale non sentita più corrispondente al desiderio di essere sé stessi e non solo la copia di un modello, è divenuta paradossalmente una liberazione dall’io, perché l’io e il suo stesso desiderio finiscono per bruciarsi di fronte alla conclamata possibilità che non c’è un senso più grande di sé – il “sé” di volta in volta prefigurato dalle ideologie, dalla politica, dalla cultura dominante, dalla produzione, dal consumo.

Senza l'infinito
anche il finito si perde,
soffocato nella sua misura.

E non lo dico per una motivazione etica, ma estetica o ontologica: non possiamo farci niente se l’io “è” rapporto con l’infinito – cioè è fatto per cercare un significato ultimo per sé –, e negare questo rapporto sarebbe negare l’io.

Ecco, il nichilismo del nostro tempo è una chance per vedere in maniera più spassionata e spregiudicata questo problema.

Ma questo, come tutti i problemi veri, non è mai un problema accademico, per così dire, ma è un bisogno; e ogni vero bisogno è un’attesa, un’imminenza – a volte afona, ma non meno urgente – a ciò che si attende.

TROCCHI: Il Suo è un libro che, delicatamente ma con ferma decisione, descrive contesti, denuncia pericoli, rileva aporìe, suggerisce ipotesi interpretative, e ipotesi di lavoro.

Un lavoro “esperienziale”: convoca il lettore ad un dialogo con quanto proposto, un serrato invito a paragonare con il proprio personale bagaglio umano i “temi infuocati” trattati nei singoli capitoli.

Tra le mille suggestioni e fili che si separano per poi riannodarsi lungo il testo, soffermiamoci sull’ipotesi interpretativa centrale del volume: esistono, soprattutto oggi, segni e segnali nella vita delle persone e dei loro svariati consessi umani tali da suggerirci un incipiente allontanamento e discostamento dalla cultura nichilista in cui tutti siamo immersi, anche senza averne piena consapevolezza.

In tal senso la drammatica esperienza della pandemia ha fatto nascere, o rinascere, in molti domande “di senso” spesso sopite, oltrepassate, anche solo involontariamente accantonate. Un brusco e drammatico risveglio che ha rimesso – di schianto, tutti – di fronte alla sofferenza, alla morte, alla coscienza della nostra “finitezza” e limite. Provocati da un tale, drammatico, urto della realtà, abbiamo tirato fuori risorse inaspettate e intravisto itinerari esistenziali prima inesplorati. Eppure…e vedo questo “eppure” – Le confesso – anche su di me, ho l’impressione che ora, senza che la situazione sia ancora rientrata negli augurabili e attesi “ranghi della normalità”, noi nel recinto del “vivere senza farsi troppe domande” ci stiamo velocemente riaccomodando.

Lei ha definito il nostro essere improvvisamente travolti da una pandemia come una vera e propria esperienza di shock di fronte al mistero, una straordinaria – quanto drammatica –  occasione per riaprire la domanda circa la natura della realtà. Sono stato troppo lungo, chiedo scusa a Lei e ai lettori. Prosegua pure, obietti, chiarisca…

ESPOSITO: Ci sono dei momenti nella storia personale e nella storia culturale e sociale in cui le questioni si rendono evidenti nell’esperienza.

Magari è difficile trovare una soluzione adeguata, ma è il momento più prezioso, quello in cui si arriva a vedere il problema – cioè, come dicevo prima, a riconoscere il proprio bisogno.

Noi crediamo di solito che l’inceppo o il blocco delle nostre vicende – ancora una volta sia a livello personale che collettivo – dipenda dal fatto che non riusciamo ad imbroccare il problem solving vincente. Ma a ben vedere, il vero problema – mi perdoni la cacofonia – è che non si vede il problema. Perché il problema siamo noi. Non mi fraintenda, non nel senso che la colpa è nostra, ma nel senso che non riusciamo più a riconoscere un senso che muova la vita.

Certo, la vita poi va avanti, il pilota automatico si rimette in moto e il gran meccanismo riprende a girare.

E noi, sulla “gran scena del mondo” – per usare una struggente locuzione che troviamo in Shakespeare come in Calderòn de la Barca, protagonisti di quel Seicento che a mio modo di vedere è proprio il secolo in cui emerge potente il sentimento nichilista dell’esistenza – interpretiamo i nostri ruoli, senza alcuna frode, senza dolo, ma con tutta la commovente sincerità di chi deve barcamenarsi per stare al mondo.

E poi arriva la pandemia, e le quinte del teatro vacillano o cadono, e noi dobbiamo riconoscere di essere non solo “personaggi”, per continuare la metafora teatrale, ma anche “interpreti”.

Che il nostro io è la parte essenziale della sceneggiatura della storia.

Non sto certo dicendo che dobbiamo ringraziare la pandemia per aver stanato e provocato il nostro io a venir fuori dal ruolo e a chiedersi chi è e cosa realmente vuole. Ce la saremmo volentieri risparmiata!

Ma se non ci è stata risparmiata, bisogna ben capire – e aiutarci a capire – che cosa ci chiede.

Essa – questo è il paradosso che sfonda il tessuto connettivo del nichilismo – chiede niente di meno che di noi.

Certo, chiede politiche sanitarie più controllate e stili di vita più responsabili, ma tutto questo è possibile solo se c’è un io, un soggetto in azione. E infatti come sono stucchevoli – giusti, sacrosanti, ma stucchevoli – gli appelli a comportamenti corretti e condivisi, proprio perché ci si appella a qualcuno che non c’è più, al soggetto umano, alla coscienza dell’io, senza del quale l’appello cade, e non può che cadere nel “vuoto”.

Ma l’io non è mai dato in assoluto, ma solo strappandosi dal nulla. La nostra soggettività non può mai darsi per scontata.

 Essa emerge solo nell’impatto con qualcosa o con qualcuno che lo ridesta. E’ sempre in un contro-movimento – o diciamolo con la parola più semplice e  più  vera: è sempre in un rapporto, cioè in un incontro che genera un contraccolpo, uno shock appunto – che l’io diviene cosciente di sé.

 

E’ vero, come Lei dice, che già ora, a pandemia ancora in corso, rischiamo di sistemarci nuovamente nei nostri recinti.

Ci si può abituare anche al carcere, si sa, figurarsi se non ci si abitua alla didattica a distanza.

Ma questo è il bello e il rischioso della vicenda… se è vero che tutti – e dico veramente tutti – sono stati colpiti da questa emergenza, che ha fatto rinascere in ciascuno una domanda di senso, magari non teorizzata, ma sentita, patita, condivisa, è anche vero che questa domanda può smarrirsi di nuovo e ritornare nel guscio della dimenticanza.

Perché possa continuare bisogna – che paradosso! – che la domanda scaturisca di nuovo da una possibile risposta vera.

Ma come, Lei mi dirà, non è la risposta che viene dopo la domanda?

E che vuol dire allora che la domanda può rimanere desta solo se nasce dalla risposta?

Il fatto è che una risposta vera non è una definizione già saputa ma è – mi si passi il termine un po’ temerario – una “incarnazione” del senso.

Solo uno sguardo umano in cui il significato del reale si renda visibile, solo uno sguardo che ci guardi così, può permetterci di non smarrire la domanda su di noi.

Anzi, di moltiplicarla.

E se una domanda così permane, vuol dire che il nichilismo non è più in grado di interpretare veramente la condizione umana del nostro tempo.

In qualche modo esso è superato rispetto al nostro bisogno. Ed è iniziato, quasi impercettibilmente, il suo superamento. Non sappiamo quanto durerà ancora, forse tanto tempo, ma nel momento in cui riscopriamo il nostro io come fame e sete di senso, esso ha già cominciato ad esser superato. Semplicemente seguendo quello sguardo.

Ed è questo sguardo che ho cercato di intercettare e di seguire nel mio viaggio nel nichilismo del nostro tempo: dai poeti agli scienziati, dalla filosofia alle serie televisive tutto ci parla – a saperlo ascoltare – di questo contraccolpo.

 

*Costantino Esposito è professore ordinario di storia della filosofia

e di storia della metafisica all’Università di Bari Aldo Moro

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Massimo Trocchi

Approda a Pisa nel 1994 per gli studi universitari e si laurea in lettere classiche. Apprende per qualche anno il mestiere di libraio a Firenze, e nel 2004 torna a Pisa per rilevare la Libreria Pellegrini...

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