A Vicente Navarro Aparicio*
Lo devo ammettere, il volume mi era sfuggito: mea culpa.
Poi, al momento di pubblicare su questo nostro blog una nuova bellissima storia di Luca Del Re dedicata alle profonde corde che il calcio, quello vero, sa toccare.. mi sono messo a cercare un libro che potesse adeguatamente corredare l’articolo in questione.
Ed ecco la felice scoperta: Contro il calcio moderno, Odoya editore, uscito alla fine dello scorso anno.
Niente di più adeguato.
Ho letto in un fine settimana il volume, ed abbiamo deciso di approfondire.
Grazie all’Autore Pierluigi Spagnolo, giornalista professionista e redattore della Gazzetta dello Sport, che si è immediatamente reso disponibile a fare due chiacchiere con noi.
Chi scrive, caro Pierluigi, è quasi un tuo coetaneo.
La mutazione del “sistema calcio” l’ho vista dunque avvenire come te.
Come te, fin da bambino, mi sono appassionato al calcio, imparando a tifare la Roma degli anni ’80 di Falcao e Bruno Conti in terra toscana: una rarità.
Era il 1981, prima elementare, di lì a poco la Roma vinse per davvero lo scudetto, ma era solo il secondo.
Papà mi aveva mentito: Felix culpa paterna.
Iniziai a seguire le partite la domenica alla radiolina munito di sciarpa, bandiera e fustino del Dixan: era il mio tamburo, e la mia cameretta la curva sud.
Un vero ultras di 6 anni, tappeto del Subbuteo steso in terra e giocatori in campo.
Sistemavo accuratamente i bamboccetti, studiavo le formazioni sul giornale, e per novanta minuti ascoltavo la radio e guardavo il tappeto.
Io ero allo stadio.
eppure c’è.
In me, come nei bambini di oggi, anche se non ce li vedo i “bimbi moderni” con il Dixan di fronte alle pay tv.
Entriamo dunque nel merito del tuo bel libro, Pierluigi. Ho molto apprezzato i primi capitoli del volume in cui ripercorri gli avvenimenti salienti che hanno innescato le profonde trasformazioni del mondo del calcio. L’anticipo del sabato sera, Tele + (l’avevo dimenticata!) la cosiddetta “sentenza Bosman”…
Cosa intendi quando parli di “calcio moderno”? da quando il calcio si fa “moderno”?
SPAGNOLO: “Per “calcio moderno” intendo il calcio diventato prodotto televisivo, uno spettacolo di intrattenimento dominato dalle pay tv, che da ormai due decenni decidono quando si gioca, a che ora si gioca (presto decideranno persino dove si gioca, persino all’estero) in base all’interesse del palinsesto.
Per calcio moderno intendo il calcio non più rito, ma merce, prodotto.
Con i tifosi diventati clienti/consumatori di abbonamenti televisivi, merchandising e gadget (sempre più costosi, spesso sempre più brutti e senz’anima).
Per calcio moderno intendo un calcio dominato da una visione finanziaria, che vende la propria anima ed è alla costante ricerca di denaro per sostenere gli ingaggi folli dei calciatori e degli allenatori, e rose sempre più allargate, senza limiti e senza logica.
Per calcio moderno intendo il calcio che punta a eliminare gli ultras, trasformando gli stadi in teatri, comodi e costosi.
E che finirà per spingere la massa degli appassionati verso il divano e la pay tv.
TROCCHI: Il processo da te descritto è sotto gli occhi di tutti, e conserva caratteri di irreversibilità. Sono le logiche del cosiddetto “neoliberismo” che da decenni dominano il mondo. Ne abbiamo discusso su questo blog intervistando il Prof. Mario Alberto Banti, in occasione dell’uscita del suo ultimo bellissimo lavoro “La democrazia dei followers” (Laterza, 2020). Sarebbe stato impossibile che un mondo come quello del calcio – con un bacino di utenza clamorosamente importante ed ampio nel mondo intero – non ne venisse progressivamente investito. There is not alternative: non si puo’ che fare così. “Non avremmo potuto che fare così”, sembrano dirci. E’ la logica del profitto, della trasformazione dello sportivo da tifoso a cliente… è stato tutto davvero così irreversibile?
SPAGNOLO: Sono d’accordo. Il calcio diventato prodotto, elitario e senza anima, rispecchia la mercificazione della nostra società, con il tifoso diventato cliente.
Un tempo si parlava di tifoserie. Oggi i grandi club ragionano in termini di “fanbase” da allargare.
Sono a caccia di follower, di consumatori anche occasionali, turisti del pallone, acquirenti del prodotto televisivo e di magliette sempre più irriconoscibili, stravolte dagli sponsor e piegate alle logiche del marketing.
TROCCHI: Non posso che complimentarmi (anche) per il tuo profetico capitoletto dedicato alla SuperChampions (pag. 138 del volume). E’ la famosa Superlega di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi. Mi ha fatto non poco sorridere seguire lo storytelling creato ad arte secondo cui i vertici della Lega italiana e quella della UEFA sono improvvisamente diventati i paladini della difesa del calcio “dei valori”, del calcio “del popolo” . Una crisi scoppiata tra “ricchi e ancor più ricchi”, sapientemente narrata come un duello tra i “ricchi e i poveri” del pallone.
E siamo certi che non è finita qui. Che idea ti sei fatto di ciò che è successo, Pierluigi, e soprattutto di ciò che a breve potrà avvenire?
SPAGNOLO: Si sapeva che il gotha del calcio fosse al lavoro per creare una Lega d’elite… Però nessuno poteva immaginare un’accelerazione così improvvisa.
Evidentemente la crisi provocata dal Covid (stadi vuoti, niente biglietti venduti, meno sponsor e meno acquisti complessivi dei tifosi/clienti) ha spinto i club più potenti, che sono anche quelli più indebitati, a cercare il colpo teatrale.
Ovvero: farsi finanziare una nuova Lega, a partecipazione chiusa, da una banca d’affari americana, per 3,5 miliardi di euro, che potesse appianare in parte i buchi di bilancio provocati negli ultimi anni da ingaggi faraonici e spese folli.
Però la nascita della SuperLega è sembrata ancora più stridente durante la pandemia, così da mobilitare i tifosi, il mondo della politica e dell’informazione, tutti uniti nella condanna del nuovo format.
Pericolo sventato, meglio così.
Ora, però, trovo assurdo che la Fifa e la Uefa, così come i vertici del calcio italiano, si ergano a paladini, facciano finta di voler difendere il calcio come fenomeno popolare.
Non è così.
Il calcio è un business e loro hanno una grossissima responsabilità.
D’altronde, la recentissima decisione di riformare la Coppa Italia, solo con squadre di Serie A e B (escludendo quelle di C), è l’ennesima dimostrazione di come si voglia spettacolarizzare il calcio, a beneficio solo dello show televisivo, a danno della passione dei tifosi.
TROCCHI: Ripartiamo dal Dixan e dai sogni in esso racchiusi. Mi fa impressione pensare come nonostante la piena consapevolezza dei tifosi circa le allucinanti leggi che regolano oggi il calcio, questo sia ancora uno sport capace di aggregare, far sognare, unire, discutere, dividere. Insomma, una “roba” ancora popolare… dal di dentro di un sistema che di popolare non ha più nulla e sempre meno vorrà averne. Tu citi nel tuo libro, giustamente, il pregnante volumetto di Marc Augè “Football – il calcio come fenomeno religioso”.
Dobbiamo davvero scomodare antropologi e sociologi per capire noi a noi stessi?
SPAGNOLO: Mi lego alla tua bellissima immagine del fustino del Dixan, che per te era un tamburo da stadio, per ricordare una frase di Roberto Straccia, giornalista del Corriere della Sera e grande conoscitore del mondo delle curve, scomparso troppo presto ormai dieci anni fa.
sventola una bandiera,
lì rinasce il Commando Ultrà”.
Dico questo perché il tifo è aggregazione, identificazione, appartenenza, un istinto naturale alla partecipazione.
La curva è il più frequentato luogo di aggregazione della nostra società, l’unico davvero interclassista, trasversale, dove un quattordicenne e un sessantenne, un disoccupato e un neolaureato, il figlio del medico e il figlio dell’operaio, vivono assieme la passione, senza distanze.
Non a caso, gli ultras sono la più longeva controcultura italiana, che risale alla fine degli anni Sessanta, sono figli del ’68 e degli Anni Settanta.
TROCCHI: Pierluigi, chiudiamo con un flash: da dove ripartire?
SPAGNOLO: Da una rivoluzione vera.
Dal tetto agli stipendi dei calciatori, dal limite alle spese dei club.
Dagli stadi di nuovo pieni, affollati, con biglietti a prezzi popolari.
Con il limite di 1-2 partite in diretta tv, com’era in principio, a metà anni Novanta.
Con il calcio disputato la domenica pomeriggio.
Solo così si potrà tentare di salvare, in extremis, il calcio inteso come rito collettivo.
Altrimenti, la valvola di sfogo resterà quella del cosiddetto “calcio popolare”, le piccole squadre di quartiere.
Il calcio dove girano pochi soldi, dove i tifosi sono ancora protagonisti, dove le squadre sono emanazione diretta della passione della gente.
*Ndr: L’immagine di copertina dell’articolo ritrae la statua di Vicente Navarro Aparicio, tifoso del Valencia, morto nel 2016. Cieco da quasi quarant’anni non ha mai disdetto il suo abbonamento allo stadio, dove continuava a recarsi assieme al figlio.
Fila 15, posto 164 dello stadio Maestalla di Valencia.
Dedichiamo questa intervista a Vicente, e al Vincente che alberga nel cuore di ogni tifoso del pallone.
A Pieruigi i nostri più amichevoli ringraziamenti, anche per aver dedicato a questa storia un paragrafo del suo libro.
—
Acquista qui il volume di Pierluigi Spagnolo:
CONTRO IL CALCIO MODERNO
di Pierluigi Spagnolo
Bellissima intervista sia nelle domande che nelle risposte. Io ho ricordo del primo mondiale di Pelè (alla radio), mi ricordo Maldini (quello vecchio, non quello nuovo ormai quasi vecchio pure lui), Buffon (idem come sopra), Liedholm (quando giocava, non quando allenava), Boniperti (quando giocava, non quando faceva il presidente) Lorenzi, Virgili e per omaggiare l’intervistatore romanista Ghiggia e tanti altri (alcuni giorni fa è morto Stucchi, capitano della Roma negli anni ’50, originario del mio paese). Ero alle elementari ed al lunedì i bimbetti commentavano le partite che non avevano visto, ma sentito alla radio e commentare dagli adulti. Ecco il punto.
Allora c’erano due strumenti: la radio e il quotidiano del lunedi. Oggi la tecnologia ha aggiunto la televisione, soprattutto nella sua evoluzione ed il web, come accennato nell’intervista, Sono cadute le intermediazioni, il radiocronista ed il giornalista, si può’ vedere tutto direttamente in tempo reale o in stretta differita, purché’ si paghi e profumatamente. E’ la tecnologia, come in altri campi, che determina l’evoluzione del fenomeno ed è difficile pensare che, avendo la base tecnologica stabile ed assestata, si torni indietro in direzione degli auspici espressi nell’ultima risposta, anche se a me non dispiacerebbe. Spero che la dea Eupalla (definizione di Giuan Brera fu Carlo) non venga definitivamente ed esclusivamente assimilata al business, ma temo che si vada da quella parte…
Leggero’ il libro, con piacere e curiosità.