Dove vai, America? Intervista ad Arnaldo Testi (Parte II)

Dove vai, America? Intervista ad Arnaldo Testi (Parte II)

Dove vai, America? Intervista ad Arnaldo Testi (Parte II) 1024 597 Angelo Chiani
Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista ad Arnaldo Testi circa le imminenti elezioni negli USA

 

Per quanti si fossero persi la prima parte… potranno rimediare cliccando qui…

CHIANI: Ben ritrovato, Professore. Riprendiamo le fila del nostro dialogo, e ripartiamo da un aspetto che tanto ha fatto e fa ancora discutere: il cosiddetto “voto per posta”. Sappiamo peraltro che, ad oggi, già decine di milioni di americani hanno espresso il proprio voto secondo questa modalità. Può brevemente spiegarci come funziona? E’ veramente così determinante ai fini dei risultati elettorali? Perché il Presidente uscente Trump continua a paventare brogli dovuti all’utilizzo del voto per posta? E’ plausibile che questa metodologia di voto renda più alta l’evenienza di possibili brogli?

TESTI: Il voto per posta è vecchio, è usato da decenni. Ma è anche nuovo perché il suo uso si è esteso enormemente e ha cambiato natura. Una volta, mettiamo alla fine del secolo scorso, votava così solo chi avesse qualche valido motivo, perché assente dalla residenza abituale per lavoro o per malattia, magari perché in viaggio all’estero. Ora in molti stati non è più necessario avere una scusa formale, è a disposizione di tutti, chiunque può farlo. Decine di milioni di americani l’hanno fatto alle ultime elezioni presidenziali nel 2016, in California per esempio più del 50% degli elettori. In cinque o sei stati (Oregon, Washington, Colorado, Utah, Hawaii…) il voto postale è l’unico possibile, è obbligatorio, non esiste altro metodo. Quest’anno, per timore della pandemia, dell’affollamento fisico che si verifica ai seggi, i numeri potrebbero crescere ancora.

Il funzionamento è semplice. Nelle settimane o nei mesi che precedono Election Day, i cittadini iscritti nelle liste elettorali chiedono agli uffici preposti di avere una scheda elettorale, ritirandola di persona o facendosela spedire. In alcuni stati tutti gli iscritti ricevono a casa un modulo per fare la domanda; negli stati in cui il voto postale è obbligatorio ricevono la scheda vera e propria. Dopodiché la preparano dove e quando vogliono e la restituiscono mettendola in una busta anonima sigillata, a sua volta inserita in una busta ufficiale con il loro nome e cognome. Possono restituirla, di nuovo, di persona presso gli uffici municipali o di contea, talvolta presso speciali centri di raccolta, oppure depositarla in una buca delle lettere. Che nell’occasione sostituisce o prende le sembianze della cara vecchia ballot box.

Tutto ciò richiede servizi postali ed elettorali affidabili, e non sempre lo sono. Ci sono casi di ritardi e disguidi (schede inviate all’indirizzo sbagliato, per esempio) così come di errori di votanti inesperti nella restituzione (quindi di schede annullate). I brogli paventati dal presidente Trump, elettori che votano più volte o in nome del caro estinto, oppure interi pacchi di schede soppressi o manipolati da attivisti zelanti, sono statisticamente e storicamente rari; dopotutto in ogni seggio ci sono poll watchers di partito accreditati per legge. Una fonte di preoccupazione, che tuttavia è poco discussa, potrebbe essere piuttosto questa: siccome le schede sono marcate in privato, a casa o in ufficio o anche al bar, ciò consente influenze ambientali, famigliari, di altro tipo, molto dirette. Insomma, viene meno la segretezza del voto garantita dall’autorità pubblica nella cabina elettorale.    

E poi c’è il problema del loro conteggio. Che comincia solo dopo che siano stati chiusi i seggi e conteggiati i voti espressi in presenza, quindi nelle ore o nei giorni successivi, con tempi lunghi se il loro numero supera una certa soglia. Election Night, in attesa dei risultati definitivi, potrebbe durare una settimana, forse settimane. Che non sarebbe un gran guaio, se questa fosse una stagione politica normale. Ma non lo è. C’è chi teme una crisi istituzionale con passaggi sgradevoli e sbocchi imprevedibili. Un caso estremo è questo. Sembra che i democratici siano più inclini a usare il voto postale, i repubblicani quello in persona. Che cosa succede se il rapido spoglio dei voti in presenza indica una prevalenza del presidente Trump, mentre il più lento spoglio delle schede postali rovescia il risultato, magari per un pelo, a favore di Joe Biden?

Che cosa succede nell’intervallo fra i due eventi? Se per esempio Trump dichiara subito vittoria, la notte delle elezioni, come è tradizione fare con l’aiuto (e il tripudio) dei mass media, dei network televisivi soprattutto? E aggiunge che ogni ulteriore conteggio è truffaldino e deve essere sospeso, in uno o più stati o in tutti, perché è un modo dei democratici di rubare le elezioni? La grande truffa del voto postale è un suo cavallo di battaglia – un modo di mettere le mani avanti? Il sistema ha i modi e le procedure per sbrogliare la matassa, ma certo ci sarebbero ore e giorni e settimane di tensione, dentro le istituzioni, nei tribunali (in un tripudio di avvocati), magari anche in strada, nelle piazze. Il famoso pasticcio delle elezioni del 2000, in Florida, potrebbe ben diventare un modello che si ripete e moltiplica e, al confronto, una tranquilla disputa fra gentiluomini – cosa che non fu neanche allora. 

Trump esiste
perchè c'è stato
Obama...

CHIANI: Grazie, Professore. Chiudiamo invitandola a trattare un tema assai delicato e che tanto ha scosso anche l’opinione pubblica occidentale: la cosiddetta “questione razziale” e la violenza delle forze dell’ordine – occorsa anche recentemente – nei confronti degli afroamericani. Ritiene che il “problema razziale” nel continente americano si stia aggravando? Si stanno davvero accentuando dinamiche di natura razzista? O invece di nuovo c’è “solo” che simili recrudescenze siano finite sotto i riflettori di mass e social media come mai prima?

TESTI: La cosiddetta “questione razziale” è un dato strutturale della storia degli Stati Uniti. Affonda le radici nella importazione di schiavi africani nelle colonie britanniche in Nord America e nella creazione anche lì (come già era accaduto, su scala ben più vasta, nel resto delle Americhe) di un sistema di lavoro schiavile. La schiavitù a base razziale è stato “il difetto di nascita” del paese, ha detto Condoleeza Rice (ministra afro-americana del presidente repubblicano George W. Bush). Le sue conseguenze sono “la spina nel cuore dell’America / …la pietra su cui la Libertà / inciampa”, diceva il poeta afro-americano comunista Langston Hughes. E infatti la schiavitù e le sue conseguenze ne hanno segnato i  momenti e i fenomeni più rilevanti, la Rivoluzione e l’indipendenza, la Guerra civile di metà Ottocento, i tempestosi anni Sessanta del Novecento, i diversi tipi di sviluppo fra Nord e Sud, i caratteri della vita urbana e della convivenza civile.

La “questione razziale” continua a essere un dato strutturale, ed è in effetti una “questione bianca”. I radicali neri negli anni Sessanta dicevano che esiste un razzismo individuale visibile e facile da condannare da parte di persone di buona volontà. Ma che soprattutto esiste un razzismo istituzionale che è parte integrante dell’organizzazione della società, più difficile da vedere e da attaccare, responsabile delle segregazioni economiche e residenziali e culturali. Una commissione d’inchiesta di allora (la Commissione Kerner del presidente Lyndon Johnson) concluse che ciò creava una nazione spaccata in due, in due società, “due società, una nera, una bianca – separate e ineguali”. Da allora, nella società nera ci sono stati indubbi miglioramenti di fatto e di diritto ma la spaccatura di fondo è rimasta.

La vittoria di Barack Obama sembrò il traguardo di una lunga marcia di progresso, “la caduta della barriera razziale”, appunto, come titolò il New York Times. E’ stata in effetti un evento storico. E tuttavia, proprio a causa di quella vittoria, la barriera è riemersa all’attenzione di tutti. Per la First Lady, Michelle Obama, che una famiglia afro-americana vivesse nella Casa bianca, a suo tempo costruita da schiavi africani, era un fatto esilarante. Per molti americani bianchi fu invece uno shock, soprattutto per il messaggio che lanciava, la tendenza che incarnava. Le nuove correnti migratorie stanno mutando la composizione etnica del paese, i nuovi immigrati sono spesso persone di colore, i demografi prevedono che fra due o tre decenni i bianchi di origine europea saranno meno della metà degli abitanti. E ciò genera in loro panico esistenziale. Obama è stato visto come l’avanguardia di minacciosi cambiamenti.

La reazione è stato il voto conservatore per Donald Trump, un voto che si è cristallizzato lungo la linea del colore, una sorta di rivolta bianca. Trump esiste perché c’è stato Obama; come ha scritto una storica nera, “Trump è senza precedenti perché Obama è senza precedenti”. Le parole e le politiche intrise di razzismo del nuovo presidente repubblicano, l’accentuazione delle inimicizie politiche e sociali che ne è derivata, insieme alla delusione per le eccessive speranze sollevate da Obama, ai postumi della Grande recessione economica del 2008 e infine all’impatto della grande pandemia, hanno riportato in primo piano le tensioni razziali che sempre covano sotto la cenere. E queste tensioni sono esplose con una violenza e una continuità che non si vedeva dalle lunghe estati calde della fine degli anni Sessanta, ma anche, e questo è qualcosa di nuovo, con forme di empatia, solidarietà e partecipazione diretta da parte di pezzi importanti dell’opinione bianca progressista.

A fare da miccia, come negli anni Sessanta, sono stati degli incidenti con le forze di polizia, incidenti che mostrano un pattern di grilletto facile, di noncuranza nei confronti dei corpi, della vita dei concittadini neri. Da qui il movimento di Black Lives Matter. A fare da combustibile è la spaccatura che non vuole andarsene.

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Angelo Chiani

Libraio dal 1998, felice di esserlo e speranzoso di restarlo per ancora molti anni. Si innamora dei libri in tenera età ed ancora oggi non vede l’ora di trovarsi in loro compagnia...

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