Non chiamiamolo coprifuoco

Non chiamiamolo coprifuoco

Non chiamiamolo coprifuoco 1024 489 Luca Del Re
Coprifuoco. Lo dice la parola.

La notte ogni fonte di fuoco doveva essere spenta per evitare incendi. Un termine antico, medievale.

Ai tempi miei è servito per evitare rivolte, garantire ordine pubblico, proteggere da bombe.

Coprifuoco è una brutta parola, mal utilizzata, puzza di violenza garantita, non aderisce alla realtà che viviamo, è una parente mal vista. Perché comunque è divieto, viola la sacralità dell’uomo libero, è più strumento – disperato – che verità.

Coprifuoco bevendo un drink ai Navigli è un bel coprifuoco, se non danneggiasse altri. Talmente bello da non dover essere chiamato per forza coprifuoco. E’ l’esame su quanto siamo in grado di affrontare in fatto di rinunce e privazioni. Ma è elemento sproporzionato. Non tutti hanno il diritto di poterla pronunciare la parola coprifuoco.

Quanto siamo disposti
a rinunciare di noi stessi?
Non chiamiamolo coprifuoco.

A Roma, durante l’occupazione nazista, era il momento in cui si entrava in scena, per sabotaggi, azioni di disturbo, ripicca contro l’ordine crucco; era il momento della resistenza di quartiere organizzata intorno ad un pugno di ragazzini tra i dieci e i quindici anni: mio padre era il più piccolo e me ne raccontò tante di notti vissute col coprifuoco.

A Gaza stessa storia; quando nelle prime rivolte chiamate Intifada, fine ’80 primi ’90, gli israeliani imponevano il coprifuoco, in perfetto parallelo cresceva l’attività paramilitare palestinese, si incastravano vertici segreti, i clan prendevano decisioni, al buio, vietato, della striscia. Reazione, adrenalina, sfacciataggine, sfide lunghe come ere. Meglio andare in scena con qualcosa in palio.

A Sarajevo il primo fottuto coprifuoco mi fa ricordare di molte donne. Alte, slave, bosniache e serbe, belle e umiliate. Donne, madri, lasciate giorni e giorni senza acqua, costrette alla sporcizia intima, loro e dei loro figli, perché la sete è più importante di un’ascella profumata, perché “chi se frega dei cicli mestruali”, del decoro, della dignità: annullarla, la dignità, è un arma antica. Ma non sempre riesce.

Ricordo le sfilate di centinaia di donne di Sarajevo condotte con dignità e sfarzo regale: alte, slave, bosniache e serbe, in pieno coprifuoco, rese ancor più belle da rossetti e guance ambrate.

Belle e stanche, armate di piccoli accendini.

Passavano ore passeggiando in direzione dei cecchini appostati sulle alture: provocazione. In guerra tutto è lecito.

Dalla collina spararono una sola volta e non uccisero nessuna di quelle donne della notte, donne del coprifuoco.

Ne morirono altre, quelle che uscivano solo di giorno. Col buio era vietato.

Luca Del Re

Lo ha sempre “turbato” provare a riassumere chi è; un dj anni 80 strappato alla musica, alla radio, per una casualità chiamata guerra nell’ex Jugoslavia. Lavorava da un anno come cronista al TG di VideoMusic e finì a Sarajevo, su ordine del Direttore, per raccontare ciò che non aveva mai visto o immaginato…

Tutte le storie di:Luca Del Re

Lascia una risposta