Il nuovo libro di Adriano Fabris: ne parliamo con l’Autore

Il nuovo libro di Adriano Fabris: ne parliamo con l’Autore

Il nuovo libro di Adriano Fabris: ne parliamo con l’Autore 1024 680 Massimo Trocchi
Cari amici e lettori tutti, benvenuti nella rubrica denominata Anteprime.

Il nome vuole chiarire e facilmente identificare l’oggetto di interesse della rubrica: parleremo di libri che – al momento della pubblicazione di ogni singolo articolo – debbono ancora uscire in libreria. Lo faremo nella forma di intervista con i singoli Autori: come scrivere -altrimenti – di qualcosa che ancora non c’è, se non interloquendo direttamente con gli Autori stessi?

E’ con grande piacere e gratitudine che inauguriamo questa nostra rubrica con un grande ospite: Adriano Fabris, Ordinario di filosofia morale presso il Dip.to di Civiltà e Forme del Sapere e Presidente del Corso di studi in discipline dello Spettacolo e della Comunicazione dell’Università di Pisa.

Da sempre teso alla interconnessione e al dialogo tra i diversi settori disciplinari di proprio interesse, è Autore di numerose e importanti pubblicazioni nei campi dell’etica, della comunicazione, della filosofia, e della filosofia della religione.

Per l’editore Morcelliana sta per uscire (e già prenotabile sul nostro e-commerce) la sua ultima monografia: Etica e ambiguità – una filosofia della coerenza.

Ecco qui gli esiti della nostra nostra chiacchierata circa questo volume…

Trocchi: Caro Professore, grazie innanzitutto per aver accettato il nostro invito.
Nella prefazione al volume, che ho avuto l’onore di leggere in anteprima, Lei esordisce con una affermazione tanto netta quanto densa di implicazioni: “fare filosofia (…) è un agire sempre a rischio di ambiguità”. Per iniziare ad addentrarci all’interno del percorso che si sviluppa lungo le pagine del libro, occorrerà sgombrare il campo da un potenziale equivoco: il termine ambiguità, nel linguaggio comune, è fortemente connotato da un’accezione negativa. Non sembra, però, che Lei tratti questo termine con disprezzo, piuttosto come una condizione ineludibile dell’agire del pensiero. E’ così?

Fabris:  Sì, è vero. Potremmo dire però, quasi con una battuta, che lo stesso termine “ambiguità” è un termine ambiguo. Vale a dire, è caratterizzato da un’aura negativa e, insieme, indica un’opportunità per il pensiero. È qualcosa cioè con cui dover fare i conti, perché genera disagio e incertezza, e, al tempo stesso, è un aspetto delle cose, indicando le molteplici possibilità da cui tutto è caratterizzato. Nel primo caso è necessario un antidoto, e l’antidoto consiste nell’assunzione di un atteggiamento di coerenza, in quanto la coerenza è una riduzione dell’ambiguità. Il secondo aspetto, il carattere produttivo dell’ambiguità stessa, lo si può far valere contro tutti i riduzionismi e le tentazioni di pensiero unico che sono presenti, tanto più oggi, nella mentalità comune. Nel libro cerco di sviluppare entrambi i punti, con un approccio filosofico e con uno specifico riferimento all’ambiguità che è propria della stessa filosofia.

Trocchi: Ripartiamo da un altro incipit, quello del primo capitolo (l’ambiguità della filosofia).
Lei scrive: “ll modo di pensare della filosofia e, soprattutto, la sua motivazione di fondo hanno un’origine ben precisa. Sono determinati dall’esperienza di un’ingiustizia (…)”.
A me hanno sempre insegnato, e in tal senso mi piace riprendere il titolo di un bellissimo volume di Enrico Berti, che “…in principio era la meraviglia”: ovvero…cos’è l’essere?…chi è l’uomo…? …e gli dei? Non appena – insomma –  l’esperienza umana dell’ingiustizia. Sarà peraltro Lei stesso, nel corso del libro, ad avvertirci che chi voglia oggi continuare a fare e praticare la filosofia non può esimersi dal tornare a riprendere continuamente in mano “le domande degli antichi”. Perché per Lei la filosofia trova nell’istanza di giustizia la sua “motivazione di fondo?”

Accade qualcosa che va contro l’equilibrio,
la corretta ripartizione,
l’equità dei rapporti umani.
(...) E' l'inizio della filosofia.

Fabris: È vero, naturalmente, ed è giusto dire che la riflessione filosofica viene sollecitata, come dice Aristotele, dalla meraviglia. Anzi, più precisamente, bisognerebbe dire: dal “thauma”. Questa è una parola greca che indica insieme meraviglia e timore. È ciò che appunto proviamo – quella sensazione di spaesamento, di disorientamento, non sempre piacevole – quando ci succede qualcosa d’inaspettato. Ma segnalare tutto ciò significa limitarsi solo a un punto di vista teorico. Invece quando agiamo – e agiamo sempre: anche il pensare, anche il parlare sono azioni – quello che ci sorprende è qualcosa che non va come dovrebbe, qualcosa che non si sviluppa secondo le regole condivise, qualcosa che si presenta come iniquo rispetto all’ordine del mondo. È il nostro senso della giustizia – considerando il temine “giustizia” in generale, comunque esso possa poi venir precisato – che è messo in crisi quando accade qualcosa d’inaspettato sul versante delle nostre azioni. Lo scandalo iniziale della filosofia, quello vero, non consiste dunque nel fatto che non possiamo controllare il mondo, perché rischiamo di essere sorpresi dagli eventi del mondo stesso. Tutto ciò, grazie alla tecnica e soprattutto grazie gli sviluppi delle tecnologie, sembra che lo stiamo sempre più riuscendo a fare. Lo scandalo – e la sorpresa – consiste invece nel fatto che accade qualcosa che va contro l’equilibrio, la corretta ripartizione, l’equità dei rapporti umani. Com’è accaduto nel caso di Socrate: quando un uomo giusto, che non faceva male a nessuno, è stato messo a morte.

Trocchi: Concentriamoci ora su un altro dei termini chiave del libro: il termine etica.
Un’etica intesa evidentemente come specifica disciplina filosofica, e capace di configurarsi come l’unico “antidoto alle ambiguità della filosofia (cit.)”. Un’etica intrinsecamente relazionale che, mentre Lei la indica e propone come unico rimedio, ci avverte al contempo di come proprio l’ambito delle relazioni si configuri luogo e spazio privilegiato dell’accadere dell’ambiguità. Sembrerebbe dunque configurarsi una sorta di strada senza uscita?

Fabris: Potremmo dire che l’agire, ciò che viene regolamentato dall’etica, risulta un “pharmakon”, cioè nel contempo una medicina e un veleno, per quanto riguarda lo sviluppo e la riuscita delle nostre relazioni. Anche qui si tratta di una situazione ambigua. Da un lato, infatti, quando agiamo ci muoviamo in contesti non chiari, non univoci, le nostre stesse intenzioni spesso sono altrettanto confuse, e in ogni caso le nostre azioni possono essere interpretate in tanti modi, a seconda dei contesti in cui si muovono e delle conseguenze che esse provocano. Dall’altro lato, proprio agendo diamo indicazioni univoche sul mondo, lo spingiamo in una determinata direzione, c’impegniamo perché qualcosa, e solo quella, venga realizzata. E tutto questo lo facciamo, certamente, a rischio di creare ulteriori ambiguità e fraintendimenti, ma nel contempo potendoli di nuovo chiarire solo e sempre attraverso nuove azioni. Ecco insomma il problema che in filosofia dobbiamo avere ben chiaro e che dobbiamo consapevolmente affrontare. Lo possiamo fare solo grazie a decisioni consapevoli e buone: quelle giustificate in ambito etico. La teoria infatti non basta. E dunque sì: quella che ho delineato nel mio libro è una strada senza uscita, ma solo se non ne prendiamo coscienza e se non cerchiamo di governarla eticamente.

Trocchi: Mi hanno colpito due distinte osservazioni presenti nel primo capitolo, che mi paiono intimamente connesse e dense di implicazioni sul nostro presente. Da un lato un vero e proprio J’accuse a tanta indagine filosofica presente e passata rea di aver abbandonato la “questione del senso” limitandosi ad esercitare e proporre un “discorso sulla verità”; dall’altro la descrizione del nostro presente come epoca nettamente segnata dall’esperienza del nichilismo, più precisamente un “nichilismo dell’indifferenza” (cit). E’ il famoso “nichilismo gaio” di cui parlava Del Noce, un nichilismo senza inquietudine? 

Fabris: Oggi la tentazione di tanto pensiero è quella di uniformarsi al dato, dopo averlo stabilito, analizzato e spiegato. Se le cose stanno in un certo modo – sembrano dire alcuni autori – siamo anche noi così: o addirittura lo dobbiamo essere. In ciò sta la radice del nichilismo, nel fatto di non domandarsi che senso ha tale condizione. Nel far questo, tuttavia, rinunciamo a un aspetto specifico, fondamentale dell’essere umano. Noi siamo infatti esseri utopici. Ci muoviamo certamente in un mondo di dati, ma cerchiamo anche di prospettare nuovi scenari, scenari alternativi. Si tratta di un’altra ambiguità, che è propria questa volta dell’etica. Se rinunciamo a tale nostro aspetto, se rinunciamo a essere, proprio noi, anche soggetti del/al possibile, allora davvero finiamo per considerare anche noi stessi come meri dati, come semplici cose. E il nichilismo compie fino in fondo il suo cammino, per davvero.

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Massimo Trocchi

Approda a Pisa nel 1994 per gli studi universitari e si laurea in lettere classiche. Apprende per qualche anno il mestiere di libraio a Firenze, e nel 2004 torna a Pisa per rilevare la Libreria Pellegrini...

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