Coprifuoco. Lo dice la parola.
La notte ogni fonte di fuoco doveva essere spenta per evitare incendi. Un termine antico, medievale.
Ai tempi miei è servito per evitare rivolte, garantire ordine pubblico, proteggere da bombe.
Coprifuoco è una brutta parola, mal utilizzata, puzza di violenza garantita, non aderisce alla realtà che viviamo, è una parente mal vista. Perché comunque è divieto, viola la sacralità dell’uomo libero, è più strumento – disperato – che verità.
Coprifuoco bevendo un drink ai Navigli è un bel coprifuoco, se non danneggiasse altri. Talmente bello da non dover essere chiamato per forza coprifuoco. E’ l’esame su quanto siamo in grado di affrontare in fatto di rinunce e privazioni. Ma è elemento sproporzionato. Non tutti hanno il diritto di poterla pronunciare la parola coprifuoco.
a rinunciare di noi stessi?
Non chiamiamolo coprifuoco.
A Roma, durante l’occupazione nazista, era il momento in cui si entrava in scena, per sabotaggi, azioni di disturbo, ripicca contro l’ordine crucco; era il momento della resistenza di quartiere organizzata intorno ad un pugno di ragazzini tra i dieci e i quindici anni: mio padre era il più piccolo e me ne raccontò tante di notti vissute col coprifuoco.
A Gaza stessa storia; quando nelle prime rivolte chiamate Intifada, fine ’80 primi ’90, gli israeliani imponevano il coprifuoco, in perfetto parallelo cresceva l’attività paramilitare palestinese, si incastravano vertici segreti, i clan prendevano decisioni, al buio, vietato, della striscia. Reazione, adrenalina, sfacciataggine, sfide lunghe come ere. Meglio andare in scena con qualcosa in palio.
A Sarajevo il primo fottuto coprifuoco mi fa ricordare di molte donne. Alte, slave, bosniache e serbe, belle e umiliate. Donne, madri, lasciate giorni e giorni senza acqua, costrette alla sporcizia intima, loro e dei loro figli, perché la sete è più importante di un’ascella profumata, perché “chi se frega dei cicli mestruali”, del decoro, della dignità: annullarla, la dignità, è un arma antica. Ma non sempre riesce.
Ricordo le sfilate di centinaia di donne di Sarajevo condotte con dignità e sfarzo regale: alte, slave, bosniache e serbe, in pieno coprifuoco, rese ancor più belle da rossetti e guance ambrate.
Belle e stanche, armate di piccoli accendini.
Passavano ore passeggiando in direzione dei cecchini appostati sulle alture: provocazione. In guerra tutto è lecito.
Dalla collina spararono una sola volta e non uccisero nessuna di quelle donne della notte, donne del coprifuoco.
Ne morirono altre, quelle che uscivano solo di giorno. Col buio era vietato.
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