Il regalo degli occhi

Il regalo degli occhi

Il regalo degli occhi 1024 489 Silvia Guidi

(Riflessione a margine di due esperienze tanto comuni quanto sottovalutate: leggere e scrivere)

Un ponte fatto di piccoli mattoni irregolari, uno diverso dall’altro, ma allineati, semplice ed elegante come un arabesco. In parte prevedibile, in parte no. Avevo appena imparato a leggere e quel ricamo sottile e colorato che vedevo spesso sui muri della mia città mi colpiva come un messaggio in codice da decifrare. Frasi non necessariamente belle, o poetiche, annotazioni modeste o slogan banali, ma saldamente ancorati ai muri delle case, ai manifesti nelle piazze, alla fermata dei bus. Porte, oltre che ponti, architravi e varchi verso una realtà altra, non ancora conosciuta.

Come le icone, nel mondo orientale, sono finestre aperte verso un mondo più reale del reale, ma appartenente alla dimensione del divino, feritoie che portano in regalo occhi nuovi a chi le guarda, così le scritte ripetute sui muri di una città, o sulle pagine di un libro mi sono sempre sembrate rune misteriose capaci di far saltare i limiti della realtà solita e aprire uno spazio di novità imprevista.

Se per i bambini delle Cronache di Narnia, di C.S. Lewis il varco verso un altro mondo è un armadio dal doppio fondo magico, e per Alice il tuffo nello specchio, per me è sempre stata la doppia arcata di una consonante, il varco circolare di una vocale, il ponte stilizzato sul grande mar dell’essere della pagina bianca di un paragrafo. E una parentesi, la bacchetta dimenticata da una fata buona che nel momento del pericolo può venire a salvare il protagonista della fiaba.

Averle davanti, tutti i giorni, aiuta. Meglio completare la frase: averle davanti tutti i giorni queste “vere presenze” come le chiamava George Steiner, le frasi che copiamo dai nostri libri preferiti, i quadri che amiamo di più, le immagini da cui ci sentiamo misteriosamente interpellati. Talvolta descritti, in modo sorprendentemente preciso, nei moti più riposti del pensiero, più spesso accompagnati, consolati o all’opposto, sottilmente minacciati da qualcosa che si intuisce vero ma di cui non vediamo distintamente i confini. O di cui volutamente non vogliamo riconoscere la natura. In fondo è come intessere un dialogo costante con una persona; senza parole esplicite, ma non meno concreto di un botta e risposta tra amici.

Averle davanti tutti i giorni queste
“vere presenze”:
le frasi che copiamo,
i quadri che amiamo,
le immagini da cui ci sentiamo misteriosamente interpellati.

E’ così che giorno dopo giorno, sotto lo sguardo ripetuto, paziente di una lunga frequentazione, un aggettivo imprevedibile può tornare a parlare, e manifestare il suo significato più profondo, la sua natura di segno che irrompe nell’umano: l’ingresso (o meglio l’irruzione, senza preavviso, discreta ma evidente) di una dimensione nuova nella banalità apparente del quotidiano. Una sola parola può innescare un circolo virtuoso tra pensieri, ricordi e neuroni specchio, dipingendo in un attimo una tela maestosa, un nuovo cielo appoggiato all’orizzonte, ben ancorato al bordo delle case. Seguire la strada è semplice, basta lasciar scorrere lo sguardo sulla segnaletica delle parole, in quella che nel tempo (nell’esperienza di chi scrive) è diventata sempre di più una sorta di benedizione visiva, un rito propiziatorio ripetibile all’infinito, accessibile ogni giorno aprendo le pagine di un libro.

La “magia delle rune” funziona anche scrivendo; per questo ho pensato di chiamare questa rubrica Penniskopio. Perché allineare parole sulla carta o intessere pixel su un display aiuta il pensiero a dipanarsi, chiama a raccolta dettagli prima trascurati, è una lente di ingrandimento sulle cose, un osservatorio pratico da cui esplorare il mondo stando fermi. L’arte di narrare consiste soprattutto in un’educazione dello sguardo, allenato dallo scontro-incontro con la realtà a lasciarsi raggiungere da un’alterità radicale, irriducibile a qualsiasi pensiero previo. Flannery O’Connor descriveva questo fertile conflitto come un duello paragonabile a quello di Giacobbe con l’angelo. Un angelo (nel senso etimologico di messaggero) che buca la nebbia; della stanchezza, della noia, del fastidio delle cose solite. L’atto stesso dello scrivere strappa una cortina, lacera una intercapedine di vuoto; lo sguardo si sveglia dall’assopimento, dall’anestesia consueta, per inoltrarsi in un viaggio alla scoperta di nuovi frammenti di paesaggio, esteriori e (soprattutto) interiori. Sentirsi “salutare”, sentirsi chiamare dalle cose in cui ci imbattiamo è in fondo la cifra più vera di ogni incontro autentico con l’arte. E di ogni (autentico) tentativo di scrittura.

Silvia Guidi

Ti è piaciuto l’articolo?

Ti suggeriamo questi libri di approfondimento:

Silvia Guidi

Giornalista per caso, grazie al lavoro in radio e nella rivista Semicerchio nella Firenze degli anni Novanta e ad una Borsa Formenton caduta inaspettatamente dal cielo della costellazione Mondadori...

Tutte le storie di:Silvia Guidi

Lascia una risposta