…Vorrei che tutte le mie parole fossero la conseguenza diretta della conoscenza che io ne possiedo
(Eraldo Affinati da Un teologo contro Hitler, Mondadori, 2002)
E’ appena uscito per i tipi Mondadori “I meccanismi dell’odio. Un dialogo sul razzismo e i modi per combatterlo” di Eraldo Affinati e Marco Gatto. E questo è un libro che tutti dovrebbero leggere.
Si dirà: “Certamente!…come tutti i libri che proponete su questo blog!”.
Un po’ è vero: ma la pregnanza e l’impressionante attinenza con i tempi che stiamo vivendo ne fanno davvero una lettura da ritenersi imprescindibile.
Chi scrive è certamente “partigiano” in questo suo perentorio invito: ricordo ancora con gratitudine il dialogo che svolgemmo a Pisa con Eraldo Affinati ed altri ospiti poco più di un anno fa intorno al suo penultimo libro dedicato all’educazione e al mondo della scuola (Via dalla pazza classe, Mondadori, 2018).
Benchè concepito e redatto in forma dialogica, con un intervistatore (Marco Gatto) ed un intervistato (Eraldo Affinati), sarebbe errato definire questo volume come un “libro-intervista”. Ci troviamo bensì tra le mani un vero e proprio dialogo svolto tra due persone legate da delicate e drammatiche vicende biografiche e intellettuali, e che ritroviamo assieme fin dai primi passi delle scuole di italiano per stranieri Penny Wirton, esperienza a cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro.
Non è il primo libro – e non sarà evidentemente l’ultimo – dedicato ai fenomeni che rubrichiamo come razzisti, discriminatori e arroganti. C’è però un aspetto – che oserei definire “strutturale”- che rende questa pubblicazione assai differente rispetto a molta saggistica dedicata all’argomento: chi scrive si mette personalmente in gioco con l’oggetto che tratta. Con i soggetti che incontra.
Non discetta, non divide la storia tra buoni e cattivi, pur avendo ben chiaro da che parte di volta in volta occorra stare. Fino a mettersi personalmente in discussione.
Chapeau dunque… agli Autori
TROCCHI: Ciao, Eraldo! Grazie per aver accolto il nostro invito ad essere presente in questo neonato blog! Iniziamo subito, citandoti: “(…) Non dovremmo lasciar passare invano il sentimento di fragilità che in tanti abbiamo provato negli scorsi mesi (…) nessuno si può salvare pensando solo a sé stesso: questo vale per i quartieri, le città, L’italia, L’Europa, il mondo”. Sapevamo tutti di essere fragili, ma “…un po’ come si tace un’onta” – per usare i versi di Rainer Maria Rilke – non ce lo dicevamo. Per paura, per incapacità, per l’insufficienza delle nostre parole e gesti di fronte all’accadere di un fenomeno come quello della pandemia.. Perché hai sentito il bisogno di rivolgerci questo prezioso invito fin dalle prime pagine del libro?
AFFINATI: Siamo tutti feriti, in questo momento: sentiamo di essere stati colpiti nel profondo, come se il Covid avesse abbassato le nostre pretese di onnipotenza, proprio quelle che invece la civiltà digitale ha intensificato, sino a renderci ciechi. Nessuno può essere autosufficiente. Il sentimento di coralità derivato da questa consapevolezza dovrebbe essere la base da cui ripartire: lo dico soprattutto come educatore, pensando ai più giovani. Il primo capitolo del nostro dialogo, dedicato proprio alla riflessione sulla pandemia, in realtà è stato scritto per ultimo, ma sin dal suo titolo esprime questa sensibilità: Vita tua, vita mea. Rovesciando il famoso detto latino, la tragedia planetaria del virus ci sta insegnando che non si può essere felici se l’infelicità pervade chi ci sta accanto.
detto latino:
Vita tua, vita mea!
TROCCHI: Uno dei grandi temi che il libro affronta sono le recrudescenze di episodi ed atteggiamenti di razzismo che in Italia, come all’estero, stanno sempre più frequentemente tornando a verificarsi. Certamente, se la Senatrice Liliana Segre oggi è costretta a vivere sottoscorta…anche i meno avveduti dovranno ammettere che qualche “problemino” ce l’abbiamo. Che sta succedendo, Eraldo?
AFFINATI: Questa è la domanda chiave a cui abbiamo cercato di rispondere nel libro. Ci sono aspetti congiunturali, legati alla recreduscenza dei nazionalismi e degli egoismi, basti pensare alle recenti forme di violenza contro i neri negli Stati Uniti, ma esiste anche un razzismo profondo, strutturale, ricorrente, insito nella natura umana. Rileggendo il libro, io stesso mi sono reso conto che con Marco abbiamo riflettuto su questo doppio registro: da una parte la cronaca più attuale, dall’altra quello che già in Campo del sangue, nel mio viaggio ad Auschwitz, avevo definito ‘il bosco biologico’. Il cervello rettile presente in ognuno di noi. C’è bisogno di un lavoro umano da svolgere perché non possiamo illuderci che basti rispettare i precetti giuridici per risolvere ogni problema. Purtroppo, come vediamo ogni giorno, non solo nel Mar Mediterraneo, i codici possono essere insanguinati.”
TROCCHI: Nel giro di poco più di un mese i drammatici episodi dell’omicidio di Willy a Colleferro e il massacro dei due giovani fidanzati, trucidati per ammissione del loro stesso carnefice perché “era insopportabile la loro felicità” hanno scosso l’opinione pubblica italiana. Se per il primo dramma la matrice razzista è da considerarsi come una della cause motrici dell’evento, nella seconda questo aspetto risulta essere assente. Eppure, a me, sembrano episodi figli delle medesime irrisolutezze, “vuoti”, solitudini. Il tuo interlocutore Marco Gatto definisce la nostra società occidentale come una “disattesa promessa di felicità” (pag. 38): credo che il lungo fil rouge che avvolge l’intero libro e che ruota attorno al binomio paternità/orfanità abbia ben a vedere con quanto sinora esposto…..
AFFINATI: Il rapporto padri-figli è al centro del nostro dialogo, sia per ragioni autobiografiche, di cui abbiamo dato conto nel testo, sia nella risonanza epocale che dimostra sempre di più la fragilità del mondo adulto. Uomini e donne che non sanno scegliere, che vogliono restare sempre giovani. Gli episodi che citi dimostrano, ancora una volta, il vuoto di valori da cui siamo assediati e la necessità di rispondere con azioni operative. In particolare ci siamo soffermati sulla dimensione digitale che, nelle personalità più deboli, può condurre alla deresponsabilizzazione. Abbiamo fatto riferimento ai pericoli legati al narcisismo, il retroterra della ‘testa vuota’, come dimostrano anche gli episodi che citi. Senza dimenticare la crisi in cui versa l’intellettuale contemporaneo: se partecipa, rischia di trasformarsi in una maschera; se non interviene può essere nuovamente recluso nella ‘turris eburnea’.
TROCCHI: Di fronte ai meccanismi dell’odio, evocativa espressione che avete scelto come titolo del vostro dialogo, ci avverti che: “(…) abbiamo bisogno di esperienze che non risultino vane (…)” perché la dimensione verbale rischia di essere sterile e l’azione fine a sé stessa ci conduce nel burrone (..). Ci aiuti a capire meglio cosa vuoi dire? Raccontaci ad esempio, quando hai portato all’interno della tua Penny Wirton a Roma un ragazzo che si diceva frequentatore degli ambienti di Casa Pound… perché un episodio come questo segna a tuo giudizio la strada maestra da seguire?
AFFINATI: Non ci siamo accontentati di fare una bella riflessione sul razzismo. In tutto il dialogo anzi serpeggia un’inquietudine: la sensazione che le parole, se non sono legittimate e rese attive dall’esperienza, rischiano di non servire a niente. Del resto lo stesso nostro incontro, quello fra me e Marco, è avvenuto su questo piano, nel momento in cui lui partecipò attivamente alla fondazione della Penny Wirton. L’episodio che ricordi, relativo al ragazzo di Casa Pound, condotto di fronte ad un coetaneo egiziano appena arrivato in Italia, mi fece comprendere l’inadeguatezza di certe nostri schemi culturali veteronovecenteschi: i due adolescenti, mettendo da parte le reciproche appartenenze, cominciarono a parlare della Roma, la squadra di calcio di cui entrambi erano tifosi. In quell’istante ebbi l’impressione di due uccellini che valicano le frontiere senza timbrare il passaporto. Per vincere il razzismo, dobbiamo favorire questi scambi. Se non vai in campo avverso, non puoi fare goal.”
Grazie, Eraldo!
Poco prima di chiudere questo articolo siamo riusciti a raggiungere Marco Gatto, coautore del libro e ricercatore all’Università della Calabria. Con lui chiudiamo questa conversazione: da una felice coincidenza terminologica prendiamo spunto per rivolgere anche a lui una domanda…
TROCCHI: “ (…) L’idea che siamo tutti parte di una storia condivisa passa dal riconoscimento specifico delle identità e dalla consapevolezza del loro carattere storico (…) ma non per questo leggero, friabile, vacuo (…) tante voci, ognuna specifica, per una sola grande armonia a cui tendere (pagg. 104-105)”. Caro Marco, nelle tue parole riecheggiano intenti e spunti di idee e consapevolezza da cui siamo partiti nell’ideazione di questo blog, che simbolicamente abbiamo chiamato “Contrappunto”. Tu in proposito citi Edward Said che definiva questa alta ambizione del vivere come “contrappuntistica”. Contro i manicheismi, i solipsismi e gli egoismi della nostra epoca. E’ davvero oggi una strada ancora percorribile?
GATTO: In un momento storico in cui nuovi separatismi e suprematismi si affacciano in modo inquietante sulla scena politica, il richiamo a una concezione contrappuntistica assume un valore irrinunciabile. Edward W. Said, metaforizzando sul piano culturale il senso più intimo della polifonia e guardando nello specifico al conflitto israelo-palestinese, suggeriva che una politica della reciprocità e della solidarietà sociale ha l’obiettivo di armonizzare, pur negli irrinunciabili contrasti e pur nel necessario riconoscimento delle identità, il consorzio umano, nella convinzione che vi sia un’unica grande storia collettiva e che sia possibile lavorare all’edificazione di un’appartenenza comune. È un’esigenza di coralità che oggi si fa stringente e che non può riassumersi nell’esortazione a un generico umanesimo. Quest’ultimo deve farsi azione: ovvero, concepirsi come una sfida politica che assume come problema concreto il razzismo ordinario e la sua violenza simbolica, il ritorno a ideologie regressive fondate sulla chiusura, dietro le quali si nasconde un conflitto sociale ed economico di dimensioni ciclopiche. Nel libro proviamo a dire che negli ultimi trent’anni la cultura del risentimento e del pregiudizio si è fatta sistema culturale, ha trovato una sua diffusione pervasiva non solo nei comportamenti ordinari ma anche nella cosiddetta cultura ufficiale. Il razzismo ordinario, alla stregua di altri fenomeni fondati sulla negazione dell’umano, è tale perché non si vede, si nasconde, penetra nelle maglie più intime della coscienza, si fa ovvietà. Ciò vuol dire che siamo tutti coinvolti. Eppure, fin quando ci sarà permesso di ragionare su queste contraddizioni, avremo la possibilità di dimostrare che un’alternativa esiste e che occorre elaborarla costantemente nella pratica quotidiana, senza la presunzione di rappresentare i giusti o i buoni (abbiamo insistito molto su questo punto): ed è chiaro che questa lenta ricostruzione parte dal dialogo concreto (appunto polifonico, contrappuntistico) con i più deboli, con gli esclusi.
Grazie Marco, grazie ancora, Eraldo. Non posso che chiudere come ho cominciato: leggetelo, questo libro.
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Ecco il libro di cui abbiamo parlato con gli Autori:
I MECCANISMI DELL’ODIO
di Eraldo Affinati e Marco Gatto
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