Il prossimo 3 novembre si terranno le elezioni presidenziali negli USA.
Abbiamo la fortuna di avere a Pisa un grande esperto di questioni d’oltreoceano, Arnaldo Testi, Professore di Storia degli Stati Uniti d’America. Cordialmente Arnaldo Testi ha accettato di approfondire per Contrappunto alcuni temi caldi inerenti la Presidenza Trump e la prossima importante scadenza elettorale che, come per ogni passata elezione, non mancherà di avere ripercussioni anche nella nostra Europa. Ecco la prima parte del nostro dialogo. La seconda parte verrà pubblicata Giovedi 22 ottobre su questi stessi canali. Stay tuned!
CHIANI: Caro Professore, tra poco tempo gli elettori americani saranno chiamati ad eleggere il loro nuovo Presidente. Ci pare che ormai da molti anni le elezioni negli Stati Uniti si vincano non tanto sulla base dei differenti programmi elettorali quanto sulla forza, sull’appeal e sulla presa mediatica dei singoli candidati alla Presidenza. Con Trump credo che però sia cambiato anche il modo di fare il Presidente: abbiamo assistito ad un’accelerazione verso un accentramento di potere e conseguente mancanza di collegialità nelle decisioni mai vista prima, almeno nei secoli XX e XXI. Lei che ne pensa?
TESTI: Come sempre, e tanto più in momenti di grandi trasformazioni e grandi conflitti come questo, i programmi dei due principali partiti americani sono ben differenti, propongono scenari e disegni diversi per il paese, facendo riferimento ad aree sociali diverse. Come quasi sempre, tanto più da Franklin D. Roosevelt in poi, ma anche prima in molti frangenti, anche l’appeal e la presa mediatica dei candidati contano molto. Trattandosi di una competizione per una carica monocratica, con una rilevante dimensione pubblica personale, programmi e personalità sono altrettanto importanti, si rafforzano a vicenda. Con Donald Trump e l’attuale partito repubblicano queste caratteristiche si sono ulteriormente esasperate, portando a una polarizzazione politica fra i partiti (“noi contro loro”; “nemici, non avversari”) e a un protagonismo sgangherato del presidente come raramente si sono visti nella storia nazionale.
Da un punto di vista istituzionale, Trump non ha introdotto particolari innovazioni nella presidenza. Il ruolo centrale e visibile del capo dell’esecutivo è un portato dell’ultimo secolo di storia, certo non una sua creatura. Nelle decisioni ufficiali importanti ha fatto ciò che la carica e il potere legislativo gli hanno consentito di fare. Come tutti i presidenti prima di lui, ha proceduto con decreti presidenziali (executive orders) dov’era possibile, per esempio su questioni di immigrazione o di deregulation. Le sue (non molte) realizzazioni in politica interna sono progetti condivisi toto corde con il partito repubblicano in Congresso. Per esempio la riforma delle tasse, oppure ciò che resterà uno dei lasciti più importanti di questo quadriennio: la nomina (a vita), con il consenso del Senato, di circa 200 giudici federali molto conservatori e naturalmente di due, ora probabilmente tre, giudici nella Corte suprema.
Gli altri lasciti importanti sono di altra natura, e non riguardano le prerogative della carica ma il suo (pessimo) uso pubblico, un uso che ha scandalizzato anche i vecchi conservatori, quelli di una volta. Della presidenza come luogo decisionale Trump ha degradato l’autorevolezza, comportandosi da capo padronale di un business privato. Ne ha disposto come di cosa sua, a fini personali più ancora che partisan, chiedendo ai collaboratori complicità e fedeltà incondizionata; da qui il loro vorticoso ricambio e alla fine una sua qualche solitudine. Come nella gestione del suo business privato (le rivelazioni sulle sue tasse lo dimostrano), è stato un padrone poco accorto, prono ai trucchi e alle furbizie più che al saper fare, incompetente e disinteressato dei meccanismi di funzionamento di un sistema di cui è spesso diventato prigioniero.
Della presidenza come pulpito potente (il bully pulpit) da cui parlare ai cittadini, Trump ha degradato tutto. La sua retorica etno-nazionalista non si rivolge a tutti gli americani ma solo alla sua parte, ai suoi fans, senza empatia per gli altri. Trump ha delegittimato le norme e le procedure della democrazia politica, sociale, culturale: il rapporto razionale e ragionevole con la scienza, l’onorabilità e la comune cittadinanza degli avversari politici, il difficile lessico della fragile convivenza interrazziale, l’integrità stessa delle elezioni. Ha invece legittimato la violenza verbale e in qualche modo (ma fra di noi ci capiamo) quella fisica, la menzogna casuale e quella sistematica, le fantasie cospirative. Con il primo dibattito presidenziale ha mostrato quanto sia incapace di partecipare a una conversazione.
Atteggiamenti e discorsi del genere hanno sempre circolato nel panorama politico-sociale degli Stati Uniti (come di qualunque altro paese), ma sottotraccia e molto minoritari, nelle aree estreme di radical right e anche, per certi versi, di radical left – quale radical che si rispetti non pensa in qualche momento della giornata che il sistema sia truccato e menzognero ed eterodiretto? Con Trump tutto ciò si è affacciato nel dibattito pubblico mainstream, nei comizi elettorali, è entrato alla Casa bianca in modo eclatante anche perché in immediato contrasto con il savoir-faire di Barack Obama… Ed è probabile che sia destinato a restare oltre Trump, perché non si tratta di una sua invenzione ma del culmine di un trend, e perché conferma un modo di pensare, e di pensare la politica, che non è entraneo a un certo facile senso comune.
CHIANI: La democrazia statunitense e le democrazie in generale, hanno in loro gli anticorpi per resistere alle spallate di un “trumpismo” in forte ascesa anche di qua dall’atlantico?
TESTI: Rispetto a quanto detto finora, le istituzioni costituzionali e democratiche sembrano aver retto alla prova. Il federalismo e i sistemi elettorali che ne derivano, la separazione dei poteri e i checks and balances voluti da Padri fondatori ostili al governo della maggioranza, il party government inventato nell’Ottocento, hanno imbrigliato le spinte autocratiche di un presidente autocratico per disposizione d’animo e per incapacità di essere altro. Da inquilino della Casa bianca, come tutti i predecessori, al di là del suo rumoroso agitarsi, Trump ha dovuto fare i conti con fatti sgraditi e spesso incompresi: i limiti reali del potere esecutivo federale, i lacci e laccioli del potere giudiziario e di un Congresso in parte controllato dal partito di opposizione, la robusta autonomia dei governi statali e locali e della burocrazia civile e militare.
Le imminenti elezioni generali saranno un test delicato e complesso, importante non solo per la democrazia americana. I processi politici in atto negli Stati Uniti ricalcano analoghi processi in altre democrazie. I problemi che li generano e plasmano sono un po’ gli stessi, simili a quelli che hanno favorito l’ascesa di Trump (e del trumpismo): vistosi mutamenti di potere nella scena internazionale; economie che hanno cessato di produrre mobilità sociale verso l’alto, congelando vecchie e nuove diseguaglianze; grandi migrazioni che hanno sconvolto gli assetti demografici ed etnici nazionali, alimentando nuove aspettative e antiche paure. Ne derivano divisioni politiche spesso inedite, e comunque assai rissose, che tendono a esprimersi nel linguaggio non della normale conflittualità democratica ma dello scontro finale, dell’apocalisse.
Come diceva Teddy Roosevelt più di un secolo fa, nel 1912, in vista di un altro drammatico appuntamento elettorale, di svolta, nella storia del paese…
e combattiamo per il Signore!
Naturalmente esagerava, oggi lo sappiamo.
La seconda parte dell’intervista verrà pubblicata Giovedi 20 Ottobre.
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