Un’analisi di “canto d’amore” di Giorgio De Chirico
Di fronte ad un quadro del periodo metafisico di de Chirico si è spesso presi da una insolita sensazione di inquietudine, un effetto spaesante, per non dire addirittura angoscioso, che tuttavia ci richiama e ci seduce.
Si ha come l’impressione di dover decodificare segni enigmatici propri di una lingua sconosciuta.
Ogni opera sembra custodire gelosamente un segreto di cui non vuole renderci partecipi e l’osservatore, impegnato in questo muto colloquio, tenta invano di captare un senso complessivo che l’immagine sembra negargli.
Nel corso di questa trattazione cercheremo di risalire all’origine di questo sentimento ambivalente mediante l’analisi di uno dei suoi quadri più celebri: Canto d’amore.
Tra il 1911 e il 1915 de Chirico è a Parigi, dove soggiorna assieme al fratello Alberto ed entra in contatto con gli ambienti artistici più aggiornati.
Proprio al 1914 risale l’opera in questione, dove nell’atmosfera silenziosa e sospesa di una piazza coesistono oggetti tra loro dissonanti e fuori scala, sproporzionati anche rispetto alle architetture circostanti.
De Chirico gioca con la capacità associativa dello spettatore, accostando alcuni oggetti fondamentalmente incompatibili in una sorta di non-luogo, dove il disorientamento coinvolge anche lo spazio e il tempo.
Vediamo infatti in primo piano una sorta di piattaforma scura che impedisce di vedere il suolo; lo spettatore non sa se si tratti di un piedistallo, di un tavolo o un balcone che si affacciano sulla piazza.
Su di essa poggia una sfera verde che ricorda una palla da tennis percorsa da una serie di linee tratteggiate. Dietro alla palla e al piedistallo, appesi ad una parete laterale che fa da quinta, troviamo una testa in gesso, calco dell’ Apollo del Belvedere, un guanto rosso di gomma saldamente fissato alla parete da una puntina metallica e un altro chiodo infisso più in basso nel muro, il quale misteriosamente non sorregge nulla.
Questo disturbante insieme di oggetti, così inquadrati dalla parete, è inserito all’interno di un ambiente delimitato su tutti i lati: a destra corre un portico scandito da arcate che si richiama ad un’architettura classica, mentre a sinistra la visuale è interrotta da un muretto di mattoni rossi oltre il quale è possibile scorgere solo la sagoma scura di una locomotiva a vapore, elemento di modernità.
De Chirico segnala dunque in modo assai chiaro i limiti dello spazio interno entro cui l’occhio si deve muovere, costruendo una sorta di hortus conclusus che impone una separazione dalla dimensione della realtà primaria e della logica quotidiana, dando vita a quel sentimento dell’inquietante che è alla base dell’esperienza metafisica.
Fuori di questo spazio non esiste nulla, anche il cielo non è che una zona di colore disabitata, una massa blu intenso dalla quale sono assenti tutti i corpi celesti; non vi è nè luna, nè stelle, nè sole e la luce che rischiara questo spazio vuoto penetra uniforme nella scena da una fonte invisibile ed esterna al quadro.
Questo chiarore diffuso e innaturale dello sfondo si pone essenzialmente in contrasto con la luce radente che si proietta sugli oggetti in primo piano, le cui ombre lunghe sul terreno sembrano piuttosto corrispondere ad un’ora del tardo pomeriggio.
Il diverso trattamento luministico sembra quindi marcare un forte sfasamento spaziotemporale tra l’area della composizione, eternamente crepuscolare, e quella piatta e irreale del vuoto che si staglia oltre le architetture, contribuendo a quel senso di straniamento che permea l’intera opera.
Limitando il nostro orizzonte visuale, il pittore impedisce allo spettatore di proiettarsi verso l’esterno, costringendolo a ripiegarsi in uno spazio interiore che riproduce il momento della rivelazione artistica.
Schopenhauer, che ebbe un peso fondamentale nella genesi della poetica di de Chirico, scrive in un celebre passo dei Parerga e Paralipomena:
“Per avere pensieri originali, straordinari, forse immortali è sufficiente estraniarsi dal mondo e dalle cose per certi momenti, in modo così totale che gli oggetti e i processi più ordinari appaiano assolutamente nuovi ed ignoti, sicché in tal modo si dischiude la loro vera essenza.”
L’isolamento dal mondo esterno si configura come la condizione necessaria al manifestarsi della rivelazione, quello stato di sensibilità quasi morbosa che è all’origine dell’opera d’arte di cui parla il pittore nelle “Méditation du peintre”.
La Metafisica, come la definisce Guillaume Apollinaire, è un’arte “interiore e cerebrale” e per de Chirico essa scaturisce dal riflesso di una “sensazione profonda”, un’esperienza personale di carattere emotivo e intellettuale, e il vero artista è colui che non si ferma all’esperienza sensibile del mondo, ma riesce a vedere attraverso l’intuizione ciò che l’uomo comune non vede e lo restituisce sulla tela.
Il senso di questo spazio chiuso dunque è quello di materializzare, dipingendolo, il raccoglimento interiore necessario alla rivelazione.
Quindi il treno sullo sfondo è certo un riferimento autobiografico al lavoro del padre, ingegnere ferroviario, ma sta ad indicare soprattutto un viaggio attraverso uno spazio e un tempo interiori, tra i ricordi e le esperienze passate che vengono recuperate in modo frammentario dagli abissi dell’animo e riassemblate dalla fantasia creatrice del pittore a tracciare nuovi itinerari.
Tornando agli oggetti della composizione, è come se de Chirico operasse attraverso di essi uno sconvolgimento della realtà mediante la rottura della logica abituale, una “contro-logica” come la chiama Soby, che impedisce di attribuire un senso complessivo all’immagine.
L’enigma infatti risiede non tanto nei singoli elementi del quadro, quanto soprattutto nella loro interazione.
L’opera resta muta di fronte agli interrogativi dello spettatore, che non può fare a meno di chiedersi cosa abbiano in comune la testa dell’Apollo del Belvedere con la palla di stoffa verde e con il gigantesco, prosaico guanto di gomma rossa fissato alla parete.
I critici si sono accaniti lungamente sulle provenienze iconografiche, sulle riprese e sul significato di ognuno di questi oggetti nel tentativo di leggere il dipinto; tuttavia questi sforzi di descrizione iconografica non sono in grado di spiegare il peculiarissimo fascino esercitato dal quadro, generato proprio da una disposizione complessiva così anomala rispetto alla quale ogni corrispondenza sembra sfuggire, catturando la fantasia associativa dello spettatore.
Solo per il guanto di gomma le interpretazioni spaziano dal guanto da chirurgo a quello da levatrice come segno dell’intangibile, del destino o ancora della nascita del pittore, come sembra anche indicare il fatto che il quadro venne realizzato nel mese del suo compleanno.
Certamente, come ci testimonia Apollinaire, de Chirico cercava qualcosa che potesse avere un effetto fortemente straniante:
“Il signor de Chirico ha appena acquistato un guanto di caucciù rosa, uno degli oggetti più impressionanti che si possono trovare in vendita. Esso è destinato, copiato dall’artista, a rendere le sue opere future più impressionanti e terribili di quanto non siano i suoi quadri passati. Se lo si interroga su quello spavento che potrebbe suscitare questo guanto, egli parla subito degli spazzolini da denti ancora più spaventosi inventati or ora dall’arte dentaria, la più recente e forse la più utile di tutte le arti”.
Questa intenzione risulta ancor più evidente dall’accostamento con la testa di Apollo, protettore del canto, delle Muse e immagine della bellezza ideale che, pur dominando l’intera scena, vicino al guanto diviene bersaglio di un abbassamento ironico che contribuisce all’effetto di smarrimento complessivo. Come nota Paul Zanker, il medium del calco in gesso sembra anch’esso contribuire a questo complessivo turbamento di senso, poiché in quanto copia della statua antica esso la sostituisce solo parzialmente, inoltre l’anonimità del gesso contrasta con l’icona culturale che esso rappresenta.
La perfetta triangolazione tra questi due elementi e la sfera verde, letta come simbolo del gioco cosmico che governa il mondo, ha indotto i critici a formulare numerosissime ipotesi interpretative basate sulle associazioni che le immagini, assemblate come parti di un rebus, evocavano.
Ma forse più che leggere nell’opera un’autocelebrazione del compleanno del pittore, come fa Baldacci volendo vedere nel guanto il simbolo della nascita, o ancora il compimento di una missione che il destino (il guanto) che lo ha portato sulla Terra (la sfera) gli ha affidato per elevare il suo canto d’amore per la bellezza (il calco di Apollo), sarà piuttosto necessario richiamarsi a quanto il pittore stesso scrive nei “Manoscritti Eluard”:
“Bisogna che la rivelazione che abbiamo avuto di un’opera d’arte, che la concezione di un quadro rappresenti una cosa tale che non abbia senso per se stessa, che non ha soggetto e che dal punto di vista umano non voglia dire assolutamente nulla”.
Schopenhauer e Nietzsche furono i suoi maestri proprio perché gli insegnarono il non-senso della vita, e il modo in cui tale insensatezza attraverso la rivelazione potesse essere tramutata in arte.
Infatti Nietzsche, soffermandosi sul carattere eminentemente visivo della rivelazione, afferma:
“[…] la involontarietà dell’immagine, del simbolo è il fatto più strano; non si ha più alcun concetto; ciò che è immagine, o simbolo, tutto si offre come l’espressione più vicina, più giusta, più semplice.”
Gli oggetti strappati dai loro contesti abituali rivelano una loro propria enigmaticità, la quale non provoca semplicemente un’amplificazione o un’idealizzazione della percezione visiva, ma fa scaturire un’opera del tutto separata rispetto alla realtà di partenza, calata in un mondo e in un’atmosfera completamente differenti.
De Chirico infatti nel suo saggio “Sull’arte metafisica”, paragona la logica dei nostri atti quotidiani ad un rosario continuo di ricordi dei rapporti tra le cose e noi e viceversa.
L’arte metafisica attraverso una completa disconnessione tra memoria e percezione, mira esattamente a spezzare questa filo di senso su cui si basa la nostra capacità di riconoscere gli oggetti, esaltandone in tal modo gli aspetti più inusuali e perturbanti:
“Pigliamo un esempio: io entro in una stanza, vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri; tutto ciò mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando questa scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sotto un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose. Deducendo si può concludere che ogni cosa abbia due aspetti: uno corrente, quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica […]”.
Smarrendo il filo della logica umana che associa le immagini ai propri referenti, emerge quella che de Chirico chiama “solitudine dei segni”, una rivoluzione dello sguardo che mostra la realtà “spaesandola”: isolati dal normale significato e dislocati in frammenti di spazio non più concreti, oggetti di tipo completamente differente vengono ora accostati l’uno all’altro, tramutati in simboli senza significato apparente che rivelano il carattere assolutamente convenzionale dei processi associativi umani.
E’ forse per questo che Magritte vedendo questo quadro in una rivista d’arte, affermò piangendo di aver visto “il pensiero”; la pittura metafisica attraverso la decontestualizzazione rivela infatti che la nostra abitudine ad associare immagini e cose come fossero due aspetti inseparabili di una sola realtà non è altro che il frutto di un processo arbitrario legato a precisi fattori sociali e culturali.
Nelle società umane il valore dei segni è dato dalla memoria e dall’inconscio collettivo.
Il mondo metafisico di de Chirico sfugge ai meccanismi della logica comune rompendo i legami non solo tra le cose, ma anche tra le immagini delle cose e i loro referenti.
Dunque la solitudine dei segni di cui parla il pittore è originata da due fattori concomitanti: la giustapposizione illogica di oggetti posti in contesti differenti e la separazione di questi dalle loro controparti reali. Essi pertanto, in quanto rapportabili solo a se stessi, sono posti su un piano proprio, uno spazio chiuso e inaccessibile su ogni lato, in cui ogni riferimento temporale viene cristallizzato in un perpetuo crepuscolo.
Come afferma Baldacci, sostanzialmente de Chirico pur non modificando il vocabolario tecnico della pittura ne definisce una nuova sintassi.
Il fine che si pongono questi “giochi iconografici” non è però quello di alimentare la fantasia o evocare interpretazioni proprie in ciascuno spettatore, ma al contrario quello di produrre in chi osserva il quadro un desiderio di conoscere, una tensione alla ricostruzione di un legame inesistente.
È dunque questa assoluta mancanza di senso, questo continuo sottrarsi ad ogni interpretazione, l’enigma di cui parla il pittore: un discorso per segni sul mistero dell’essere e della vita che lancia una sfida impossibile all’osservatore.
Solo considerando questo slancio frustrato alla disperata ricerca di un senso è possibile spiegare l’origine dell’inquietudine che afferra lo spettatore che osserva queste placide composizioni sospese nel tempo.
Estraendo gli oggetti dal proprio contesto de Chirico riflette su quella funzione cognitiva fondamentale che è la categorizzazione, la quale organizzando e identificando gerarchicamente i fenomeni permette di compiere inferenze, anticipare gli avvenimenti e comprendere la realtà fin nei suoi concetti più generali e astratti.
Le categorie, data la loro indispensabilità ai fini del pensiero, finiscono inevitabilmente per essere applicate in modo immediato, senza domandarsi se esse riflettano effettivamente un ordine interno al mondo o se tale ordine risieda solo nella mente dell’uomo.
De Chirico, al contrario, smaschera tramite la sua opera il carattere puramente arbitrario di tale facoltà, condizionata dai bisogni del soggetto, dalla sua memoria, dal linguaggio, dall’inconscio collettivo, dalla religione e dall’etica, adottando la decontestualizzazione per affermare l’autonomia dell’oggetto. Esso, collocato in uno spazio non abituale, costringe lo spettatore a valutare la realtà con un nuovo punto di vista, con occhi nuovi.
Le sue opere producono in chi le osserva uno stato d’animo contraddittorio: da un lato un profondo senso di esclusione ed estraniamento, ma dall’altro una forte attrazione, quasi un magnetismo, e il fascino che si prova è giustificato proprio dalla ricerca frustrata di un orizzonte di senso.
C’è un qualcosa nei suoi quadri metafisici che, attraverso le sue atmosfere sospese e silenziose, nei crepuscoli, nei calchi in gesso, nei brani architettonici e nelle piazze vuote, attira e respinge lo spettatore.
Un senso di inquietudine e mistero lascia spaesati di fronte all’enigma, alla ricerca di un appiglio che permetta di dar voce agli oggetti del quadro dando loro un senso complessivo.
Nel gioco tra reticenza e seduzione si anima l’arte di de Chirico.
Questo slancio conoscitivo è destinato a rivelarsi infruttuoso, se non in quanto svela come l’ordine che il soggetto legge nel cosmo non sia qualcosa fuori di lui, naturale o trascendente, ma frutto di un’operazione intellettuale e convenzionale propria dell’uomo, che cerca nelle cose una loro ragion d’essere.
Un ulteriore e definitivo segno di questo svuotamento di significato, spesso trascurato, è presente nel dipinto esattamente al centro del triangolo formato dalla testa, dal guanto e dalla palla, quasi ad indicare l’unico elemento che accomuna realmente questi tre oggetti.
Si tratta del chiodo conficcato nella parete che proietta enorme la sua ombra. Si trova al centro esatto della triangolazione, ma ad esso non è appeso niente.
Non è come la punta metallica da cui pende il guanto, questo chiodo non sorregge nulla, e questa sua presenza testimonia un’assenza inquietante, qualcosa che manca alle tre figure. Il grande assente è il legame tra questi tre elementi, la negazione di un senso profondo che li armonizzi e dia riscontro alle nostre aspettative. Esso costituisce la più potente affermazione che il quadro non ha niente da raccontare, da imitare, da dichiarare. Spiazzando, vuole insinuare il dubbio, minare le nostre certezze: “e se la vita fosse solo un’immensa menzogna, l’ombra di un sogno fuggente?”.
Insomma, da questo chiodo de Chirico fa pendere il messaggio profondo del quadro[1].
All’inquieta domanda di senso dell’uomo risponde soltanto il silenzio attonito del mondo.
[1] Ma non si tratta della prima volta in cui il messaggio artistico viene affidato a un chiodo. In quest’opera di de Chirico, l’inserimento di numerosi elementi di sapore cubista, come il guanto e la palla, sono spesso stati letti come richiami al linguaggio formale delle avanguardie, e in particolare a Picasso e Braque. Quest’ultimo tra il 1909 e il 1910 in opere come “Violino e Tavolozza” e “Violino e Brocca”, dimostra, non senza una punta di ironia, che l’immagine pittorica è un artificio anche quando imita la realtà attraverso l’inserimento di un chiodo nella parte alta di questi due quadri, unico elemento rappresentato in modo naturalistico in un ambiente dove tutto è frantumato in molteplici sfaccettature. Ad esso ancora una volta è affidato il messaggio profondo dell’opera, il quale in questo caso, riferendosi alla rappresentazione naturalistica, enfatizza il contrasto tra le modalità di rappresentazione tradizionali e cubiste.
MEMORIE DELLA MIA VITA
a cura di Giorgio de Chirico
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