Altissimo. Eccezionale. Smagliante. Adamantino. Fondamentale.
E ancora: “c’è un prima e un dopo”; “cambia la vita”.
Cercheremo di evitare queste espressioni e quegli aggettivi. Siamo abbastanza sicuri che nessuna opera di poesia, prosa o teatro meriti un tale scialo di triti fatti. Le muse, si chiamino Euterpe o Melpomene o Talia, sono ormai divinità borghesi, come le dipingeva in prosa e su tela Alberto Savinio. Mercurio è un postino, Ulisse un capitano di marina coi galloni, le figlie di Zeus e Mnemosine si vestono coi saldi: se qualcuno ancora si attardasse a tratteggiarli come dèi o eroi, ne ricaverebbe solo scherno e risate.
Non siamo medici compiacenti e interessati che prescrivono 4 cc di Omero, o Proust due volte al giorno, prima dei pasti – la lettura non salva la vita. Però produce risonanza. Ci sono storie, ritmi, suoni, anche gutturali, anche sgradevoli, che producono una risposta neuronale. E più ci si addentra nella lettura, più ci si specializza in questa attività innaturale, più si accumulano storie, ritmi e suoni, più il piacere – se c’è – sarà potente, incalzante, raffinato.
La musa gutturale è il titolo di una poesia di Seamus Heaney, il poeta irlandese premio Nobel per la letteratura 1995, pubblicata nella raccolta Field Work (Campo di lavoro, 1979), della quale diamo qui il testo e la traduzione.
The guttural muse
Late summer, and at midnight
I smelt the heat of the day:
At my window over the hotel car park
I breathed the muddied night airs off the lake
And watched a young crowd leave the discothèque.
Their voices rose up thick and comforting
As oily bubbles the feeding tench sent up
That evening at dusk—the slimy tench
Once called the doctor fish because his slime
Was said to heal the wounds of fish that touched it.
A girl in a white dress
Was being courted out among the cars:
As her voice swarmed and puddled into laughs
I felt like some old pike all badged with sores
Wanting to swim in touch with soft-mouthed life.
La musa gutturale
Fine estate, a mezzanotte
ancora sentivo il caldo del giorno:
alla finestra sul parcheggio dell’hotel
saliva dal lago l’odore di pantano
e guardavo i giovani uscire dalla discoteca.
Le voci aggallavano dense e consolanti
come le bolle oleose che al tramonto
la tinca creava mangiando – la viscida tinca
un tempo detta pesce dottore per via del muco
che dicevano curasse le ferite del pesce che la sfiorava.
Corteggiavano una donna
vestita di bianco, in mezzo alle macchine:
mentre la sua voce sciamava, allagandosi di risate,
mi sentii un vecchio luccio carico di piaghe,
pronto a sguazzare con la vita dalla bocca morbida.
(traduzione di Simone Ticciati)
Heaney rievoca in un’intervista la gestazione della poesia: “Una sera sono andato a pescare con un mio amico, Barrie Cook, a pesca di tinche. Sono pesci senza denti e mandano bollicine – amano la melma e il fango, e si pescano al buio. C’è questa specie di bontà viscida sopra di loro; mi hanno detto che li chiamavano pesce dottore perché c’era una superstizione secondo la quale il loro muco guariva i pesci feriti – lucci e così via – che li toccavano mentre passavano. Poi più tardi una sera mi trovavo in un albergo della contea di Monaghan, mi sentivo strano e poeticamente sterile, e c’era un ballo, un sacco di ragazzi di campagna che ascoltavano musica pop, e all’una e mezza circa uscirono dal parcheggio, e queste voci in dialetto assoluto salirono fino a me gorgogliando. Era come una visione del tipo di vita che avevo negli anni Cinquanta, andare a ballare e così via, e sentivo la qualità redentrice del dialetto, del sé gutturale, analfabeta” (J. Haffenden, Viewpoints: Poets in Conversation with John Haffenden, Faber & Faber 1981, pp. 57-58, trad. di Simone Ticciati).
Poeta attento non solo alla sonorità delle proprie opere, ma anche alla loro esecuzione orale, Heaney fa una scelta prima di tutto fonetica: in Field Work spiega di aver cercato “molto deliberatamente di passare da un tipo di scrittura cupa e foneticamente auto-referenziale a qualcosa di più vicino alla mia voce parlante” (Seamus Heaney, The Art of Poetry No. 75, an interview with Henri Cole, in The Paris Review, n. 144, Fall 1997). In questa poesia, come nell’intera raccolta, natura e lingua poetica si saldano, “un’intersezione sempre formativa, – come scrive Marco Sonzogni – dal punto di vista umano come da quello artistico, già dalla prima raccolta, ma che trova qui la sua formulazione e la sua esposizione più elevate”. (Marco Sonzogni, Nota a La musa gutturale, in Seamus Heaney, Poesie, Milano, Mondadori, 2016, p. 1010)
Ma è anche evidente che la musa, proprio perché gutturale, domestica, saldamente radicata nella lingua e nei luoghi dello scrittore, ha un potere che non lascia alcuno spazio alla retorica (o a funzioni catartiche e salvifiche – e anzi il pantano, il muco, le piaghe stanno lì a sottolineare la distanza da simili derive), ma che produce un riverbero di significati.
Ecco, vorremmo che questa rubrica – sommessamente e per quanto possibile – fosse un campo di lavoro, dove lasciare spazio e voce a libri e autori che non salvano né curano, ma che possono entrare in risonanza non solo con noi che li sceglieremo di volta in volta, ma anche con chi avrà la bontà di leggerci.
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