Nella lucidità straordinaria dei suoi 90 anni,
lo psichiatra e psicoterapeuta Eugenio Borgna ha licenziato, quest’anno, più di un volume.
Chapeau, verrebbe da commentare, se non fosse che Borgna è uno di quelli (ristretta minoranza) a cui non piace crogiolarsi nella contemplazione di sé, quella contemplazione dal gusto sempre un po’ narciso.
Nei suoi scritti Borgna cerca costantemente di guardare – in maniera acuta e tenera – l’oggetto che ha davanti, nel tentativo di aiutare la gente nella comprensione della propria vita psichica e della realtà, attraversando il dolore, le patologie e percorrendo possibili istanze di liberazione.
Oggi il suo pubblico è composto prevalentemente dai lettori dei suoi libri o dei suoi interventi sui quotidiani, non più dalle centinaia di persone che ha curato nei decenni di servizio presso il manicomio femminile di Novara, oppure dagli studenti di medicina che incontrava a lezione presso l’Università di Milano.
In un periodo emergenziale come questo non può non spiccare, tra i suoi ultimi lavori, Speranza e disperazione (Einaudi, 2020).
A differenza della prima, questa seconda ondata di pandemia ha infatti trovato ad attenderla lo scoramento, la rabbia sociale, e in alcuni casi la disperazione.
Quello che abbiamo davanti pare un lungo “inverno russo”, che rischia di portare, oltre alle restrizioni e alla precarietà, anche a quello che Borgna in più di un libro chiama “il silenzio ghiacciato del cuore” (ad es. in La solitudine dell’anima, 2011).
A rischiare di venire stordito o sepolto dal bombardamento dei fatti, dei numeri e delle interpretazioni è infatti più che la libertà, proprio il bisogno di sperare.
Ma di quale speranza si tratta?
Borgna, da psichiatra, conduce un percorso ribellandosi – come fa pressoché in ogni suo libro – alla riduzione “naturalistica” della psichiatria: “In questo mio cammino ci saranno talora sconfinamenti in aree apparentemente estranee alla psichiatria, le aree della letteratura e della filosofia, alle quali nondimeno essa non può non guardare: non essendo [la psichiatria] solo scienza naturale, ma anche scienza umana, aperta sempre ad ascoltare le attese e le speranze, la tristezza e la gioia, la nostalgia e le inquietudini dell’anima che sono nella vita” [pp. 29-30].
e inestirpabile
al fondo di ogni essere umano..
.. una speranza che non accetta alcuna riduzione naturalistica e che non si lascia confondere con il puro istinto di sopravvivenza.
Borgna attinge continuamente a questo fondo psichico per mostrare – attraverso Leopardi – che la “disperazione medesima non esisterebbe senza la speranza, e l’uomo non dispererebbe se non isperasse” (Zibaldone).
Non si tratta di un puro esercizio dialettico, che colloca il polo negativo (disperazione) come negazione di un polo affermativo (speranza) che lo precede, secondo l’adagio “prior est affirmatio quam negatio”.
Attraverso Leopardi, Kirkegaard e Pavese, Borgna si spinge sino a una rivalutazione della disperazione, mostrando come “non c’è suicidio senza speranza”.
Se la “disperazione nasce ed è mantenuta dalla speranza” [p. 16], allora va compreso che cosa – per così dire – “mantiene” la speranza.
Borgna insiste sul fatto che “la speranza ha una radicale significazione conoscitiva in teologia e filosofia, e anche in psichiatria” [p. 24].
Un simile percorso conoscitivo conduce Borgna ad attraversare il crinale sottile che distingue speranza e attesa, come aveva fatto prima di lui lo psichiatra Eugène Minkowski. Più agevole e netta risulta la distinzione tra speranza e ottimismo, laddove quest’ultimo “si illude di orientare il futuro lungo il sentiero dei nostri desideri e delle nostre aspirazioni, non riconoscendone mai il mistero” [p. 6].
Eccoci dunque al fondo che “mantiene” la speranza.
Come aveva fatto nei suoi lavori sulla depressione, sulla solitudine o sulla nostalgia, come aveva fatto con la disperazione, Borgna è persuaso della possibilità di un recupero dell’esperienza (positiva) del mistero.
Il mistero non è anzitutto l’abisso in cui una psiche può sprofondare, quel baratro in cui la speranza muore, ma ciò che anima la speranza e ciò che distingue le speranze determinate da “la speranza”, come dice una sua paziente, al culmine di un percorso di cura che si apriva al miglioramento:
“Ieri mi sentivo dentro una speranza non motivata, non speravo nel miglioramento della mia situazione familiare, avevo solo nel cuore una speranza: la speranza. Prima pensavo di non potere sperare se non in una speranza determinata, ieri, improvvisamente è nata in me una diversa speranza. […]
Ieri non avvertivo più questo senso negativo, non mi ponevo delle tappe da raggiungere, mi sembrava di poter credere. Il futuro, una situazione aperta, e la speranza che si apriva, ed era come una nuova vita” [pp. 37-38].
È questo l’ultimo passaggio, quello più vertiginoso, in cui si pone una distinzione nel cuore stesso della speranza.
Potremmo aggiungere che già San Paolo aveva evidenziato la natura “controfattuale” della speranza, quando con il suo contra spem in spem (Rm 4,18), volgarizzato con “sperare contro ogni speranza” (spes contra spem), affermava la speranza radicale (quella della fede) contro le altre speranze.
Se allora la pandemia da Covid-19 è il fatto, e lockdown è la “parola dell’anno” (secondo il Collins Dictionary), non è forse la speranza (quella radicale) il grande controfatto di questo difficile 2020?
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