“Immersi nella notte.
Come talvolta si abbassa il capo per pensare, così essere completamente immersi nella notte. Intorno la gente dorme. È una piccola scena, un’innocente illusione che dormano in casa, su solidi letti, sotto un tetto sicuro, sdraiati o rannicchiati su materassi, avvolti in lenzuola, sotto le coperte, in realtà si sono ritrovati, come una volta e come più tardi in una zona deserta, un campo all’aperto, un immenso numero di persone, un esercito, un popolo, sotto un cielo freddo su una terra fredda, buttati per terra nel punto in cui un attimo prima stavano in piedi, la fronte premuta contro il braccio, la faccia contro il terreno, respirando con calma. E tu vegli, sei uno dei guardiani, trovi il prossimo girando la legna che brucia nel mucchio di sterpi vicino a te. Perché vegli? Qualcuno deve farlo, si dice. Qualcuno deve esserci.”*
Come già lo stile fa intuire, si tratta di un racconto di Franz Kafka, risalente al 1920, conosciuto col titolo Di notte assegnatogli da Max Brod, l’amico e mancato esecutore testamentario.
È anche questo un testo, come molti altri dell’autore praghese di lingua tedesca, che grazie alla brevità estrema e alla indeterminatezza sprofonda il lettore in un’atmosfera claustrofobica ed enigmatica, ma insieme irradia suggestioni inevitabili.
Rapidamente, il tempo di abbassare il capo per leggere, ci troviamo in una notte abitata.
Intorno un intero popolo dorme, all’addiaccio; e il pensiero proietta questa scena vent’anni avanti nel tempo, ed è il tempo della Shoah.
Certo, il “campo all’aperto” è “ein Lager”, e l’illusione che tutti “dormano in casa, su solidi letti, sotto un tetto sicuro” sembra riecheggiare nel monito di Shemà di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri / nelle nostre tiepide case”… Ma l’affondo di Kafka è più radicale.
Secondo Eraclito, gli uomini sono inconsapevoli di quel che fanno da svegli così come dimenticano ciò che fanno mentre dormono; per Kafka, scrittore oltremodo notturno (“Quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte”, lettera a Felice Bauer del 14 gennaio 1913), la notte è il campo aperto in cui poter smuovere il falò di sterpi della scrittura che serve ad accendere una luce a se stessi e a individuare nell’oscurità il prossimo.
Per far questo però, lo scrittore deve sprofondare, distruggere il proprio io: deve “guardare alla conoscenza dal punto di vista della morte, come strumento di distruzione della realtà, come difesa contro la pressione caotica del mondo. La conoscenza, come ogni forma, è un processo di morte: significa prima di tutto una diminuzione dei contatti viventi, l’eliminazione della realtà convenzionale, per creare un nuovo mito, che è la nostra realtà più forte” (Carl Einstein, Necrologio 1832-1932, citato in Carlo Ginzburg, Paura reverenza terrore).
Milena Jesenská, che conobbe Kafka proprio nel 1920, ci ha lasciato il ritratto più lucido dello scrittore: “La vita è per lui qualcosa di ben diverso che per tutti gli altri uomini. Soprattutto il denaro, la borsa, l’ufficio dei cambi, una macchina per scrivere sono per lui cose mistiche …, per lui sono enigmi stranissimi di fronte ai quali non ha assolutamente l’atteggiamento che abbiamo noi. […] Sì, tutto questo mondo è e rimane enigmatico per lui. Un enigma mistico. […] Certo è che tutti noi siamo apparentemente capaci di vivere perché una volta ci siamo rifugiati nella menzogna, nella cecità, nell’entusiasmo, nell’ottimismo, in una convinzione, nel pessimismo o in qualcos’altro. Ma lui non si è mai rifugiato in un asilo che potesse proteggerlo.
È assolutamente incapace di mentire come è incapace di ubriacarsi. È senza il minimo rifugio, senza un ricovero. Perciò è esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo. È come un individuo nudo tra individui vestiti. […] I suoi libri sono stupefacenti.
Più stupefacente è lui”.
* “Versunken in die Nacht. So wie man manchmal den Kopf senkt, um nachzudenken, so ganz versunken sein in die Nacht. Ringsum schlafen die Menschen. Eine kleine Schauspielerei, eine unschuldige Selbsttäuschung, daß sie in Häusern schlafen, in festen Betten, unter festem Dach, ausgestreckt oder geduckt auf Matratzen, in Tüchern, unter Decken, in Wirklichkeit haben sie sich zusammengefunden wie damals einmal und wie später in wüster Gegend, ein Lager im Freien, eine unübersehbare Zahl Menschen, ein Heer, ein Volk, unter kaltem Himmel auf kalter Erde, hingeworfen wo man früher stand, die Stirn auf den Arm gedrückt, das Gesicht gegen den Boden hin, ruhig atmend. Und du wachst, bist einer der Wächter, findest den nächsten durch Schwenken des brennenden Holzes aus dem Reisighaufen neben dir. Warum wachst du? Einer muß wachen, heißt es. Einer muß da sein.“ (Da La notte, Franz Kafka, 1920 – Traduzione del brano a cura di Simone Ticciati)
—
Ti è piaciuto l’articolo?
ti proponiamo la lettura di:
LETTERE A MILENA
di Franz Kafka
Lascia una risposta